Un reportage narrativo sulla comunità indiana del Valdarno e i processi migratori che, negli ultimi anni, coinvolgono la realtà delle seconde generazioni in fuga dall’Italia

Mattia Lupini

Il cielo nero e l’aria satura non lasciano dubbi sul diluvio imminente. La distanza dall’Università porta con sé la scelta di accelerare il passo su via Cavour, attraversando da nord-est buona parte del centro di Firenze. Un tuono anticipa il temporale, rimbombando e rimbalzando tra le mura dell’isolato fin oltre l’Arno stesso, perdendosi fra le colline dietro Piazzale Michelangelo. La vista di una pensilina inattesa al di là della strada vanifica dubbi e indugi sul da farsi: di slancio raggiungo riparo, affrontando la carreggiata bagnata dai primi pesanti goccioloni.

L’insegna illuminata sopra il portico dice solo “La Compagnia”; sembra un piccolo e caratteristico cinema dedito alla proiezione di film in lingua originale, come suggerito dall’informativa all’entrata. Mi affaccio all’interno, percorrendo con lo sguardo l’ elegante corridoio passando da lato a lato, scrutando le affissioni su entrambe le pareti di locandine e manifesti fino alle tende divisorie dell’unica sala presente. L’attenzione cade sulla gigantografia posta all’ingresso, in bella vista ed appariscente per forma e colori: il “River to River”, festival dedicato al cinema bollywoodiano, è in programma per la settimana successiva.

Mi suona familiare, ma non sono certo che sia lo stesso festival di cui mi aveva parlato Harjinder qualche anno fa, probabile come no. Cerco il telefono in parallelo con l’apparire dei primi raggi del sole, lasciando alle spalle pensilina e nuvole nere mentre riprendo a camminare. Scorro la rubrica fino a metà ed avvio la chiamata nel tentativo che risponda in breve tempo, con l’ingresso dell’aula che si avvicinava sempre più dopo aver imboccato via San Gallo.
…click:
«Pronto Mat?»
«Ciao Hajy, Come stai? Scusa se ti disturbo, son passato da “La Compagnia” e ho visto che è in programma il “River to River”: era quello di cui mi avevi già parlato?»
«Sì, devi venire assolutamente stavolta, ti piacerà. Anche per il lavoro sulla comunità valdarnese di cui avevamo accennato l’ultima volta, così mi racconti com’è andata».

Non ho mai visto un film indiano prima d’ora. Pur arrivando con largo anticipo, trovo l’ingresso assediato da persone di ogni età in attesa di entrare. Harjinder mi attende a lato dello stesso, col badge al collo e l’aria di chi si aspetta una settimana più che impegnativa: «Al telefono non mi avevi detto che saresti stato uno degli organizzatori, non riesci proprio a startene fermo»; ci abbracciamo: «Era da tempo che me ne parlavano, alla fine quest’anno ho ceduto. Non mi aspettavo tutta questa gente, sarà l’effetto della prima serata… Tu come stai? Hai parlato con Navneet e Jagroop?», «Si con entrambi» risposi, «sono uscite riflessioni inaspettate. Qua c’è un gran fermento, meglio se ti racconto a fine film con più calma».

Varchiamo l’ingresso ed attraversiamo il corridoio per intero, ammirando da vicino quelle stesse locandine che solo qualche giorno prima avevo visto in lontananza; oltrepassate le tende, ci ritroviamo nella sala di proiezione dal gusto teatrale, col palco e la platea strutturati come a riprodurre un piccolo anfiteatro. Nemmeno il tempo delle presentazioni con gli altri organizzatori che l’attenzione di tutti vira subito al regista Nikhil Mahajan appena entrato in sala, giunto direttamente dall’India per la prima proiezione europea. Il presentatore richiama l’attenzione di tutti invitando a prendere posto dato l’inizio imminente. «Ci vediamo alla fine del film» esclama rapido Harjinder dopo il richiamo da parte dei colleghi, sparendo poi dietro le tende del palco.

Mi accodo al resto del pubblico salendo di qualche gradino per prendere posto a circa metà della platea; le poltrone in legno, rese comode dal feltro posto alla base e sui braccioli, sono più comode di quanto mi aspettassi. La sala è piena per la quasi totalità.

Mentre le luci si abbassano, ripenso alle recenti conversazioni avute con i due ragazzi indiani: le storie di Navneet e Jagroop erano differenti e ramificate, ma ambedue originarie dallo stesso luogo che Godavari stava per raccontare. Il film apre con un’inquadratura della riva del fiume sacro Godavari. “Qual è il significato di tradizione?” domanda Sarita al protagonista. Nishikant è un padre, un marito e un figlio; turbato da tutto ciò che lo circonda, evasivo nei confronti della famiglia e della comunità; il suo inespresso disagio interiore non gli permette di rispondere, preferendo andarsene e lasciare la figlia alle parole dell’amico Kaasav: «È come il fiume: scorre da un luogo all’altro come la tradizione si sposta da generazione a generazione».

Nella narrazione di Mahajan, tempo, luogo ed essere umano assumono la forma di pilastri a sostegno della trama, oltre ad essere gli intrecci delle storie legate per tradizione al Punjab indiano ma disperse nel mondo. Navneet e Jagroop mi raccontarono chiaramente questa realtà: «Non fu facile venendo dall’India, non sapendo la lingua, non conoscendo nessuno; fu uno “shock culturale”, sebbene ci trovassimo ad abitare in un piccolo paese della provincia aretina. Il nostro bagaglio di tradizioni si scontrò con i connotati della società occidentale, ma piano piano ci abituammo alla cultura italiana. Attraverso la scuola nacquero le prime amicizie».

Dai primi anni 2000 la comunità indiana valdarnese crebbe in maniera significativa a seguito dei numerosi flussi migratori: molti uomini, nel corso degli anni, riuscirono a far giungere in Italia la restante parte di famiglia rimasta inizialmente in India. «Quella comunità divenne la nostra famiglia» ricordò Navneet, e come lei Jagroop: «Trovai negli anni molti amici indiani, ma fu soprattutto grazie alla classe delle scuole medie che cambiò tutto».

Il corso d’acqua scorre verso la foce, lento e incessante, come la quotidianità di un luogo legata alla forza attrattiva dello stesso Godavari, manifestata da pellegrini e personaggi ai quali il fiume ha tolto molto, persino la ragione. Come l’uomo dei palloncini che ha perso il figlio durante un’inondazione, ma tutti i giorni torna sulla sponda per continuarne la ricerca. Godavari crea vita, ma può anche toglierla; questa è la realtà nella quale Nishikant stesso si scontrerà in seguito alla diagnosi di tumore cerebrale. Sarà questa data di scadenza della sua vita ad innescare un processo di cambiamento verso la famiglia, la comunità e il luogo, attraverso il processo di riscoperta delle proprie tradizioni.

Sono anni che oramai Navneet e Jagroop non abitano più in Punjab. I genitori si adattarono a vivere in Italia; per loro fu storia ben diversa: «Togliendo l’aspetto del voto, mi sono sempre sentita legata all’Italia. La stessa comunità italiana non mi ha mai fatto sentire straniera; per anni ho atteso il pezzo di carta, ma per tutto quel tempo mi sono sentita italiana», affermò Navneet con una padronanza del toscano tale da essere esaustiva di per sé.

Jagroop ricordò il segno lasciato da un fatto di molti anni prima: «Durante il secondo anno di medie fu organizzata una gita a Mantova in un periodo in cui portavo ancora il patki, il copricapo dei ragazzi sikh; ero in Italia da poco meno di due anni. Era prevista la visita ad una delle chiese principali, e ricordo di questa persona addetta agli ingressi che non volle farmi entrare. Fu sconcertante. Si opposero tutti, una classe intera di dodicenni si schierò al mio fianco: “Se non entra lui, non entriamo nemmeno noi”. La cosa andò avanti, questa persona arrivò ad indicare il patki additando al fatto che “tanto ero straniero”. Tutti rimasero dalla mia parte e alla fine entrammo come classe».

Sentii che il territorio era penetrato all’interno dei due ragazzi, ben oltre gli influssi dialettali; il loro attaccamento al Valdarno era ben chiaro dai sorrisi liberati nel raccontare il passato. La loro malinconia giungeva senza filtri ai miei occhi, passando da uno schermo che in quel momento ci divideva per migliaia di chilometri.

«Allora perché siete andati via?».
«Mi laureai in Scienze Farmaceutiche nel 2019, poco prima della pandemia. Non riuscendo a trovare lavoro, pensai di raggiungere mio fratello a Birmingham, assieme a mio padre e mia madre».
«Alla fine delle superiori c’era la possibilità di lavorare, ma con salari bassi. Ho sempre avuto il sogno del Canada, alcuni miei amici già ci vivevano perciò pensai “Perché no?”, e ora guadagno bene e vivo in una casa mia. In Italia questo non sarebbe stato possibile».
Entrambi apparvero felici per la scelta fatta, senza dimenticare le implicazioni emotive a cui ciascuna unità familiare andò incontro. Le prime generazioni intrapresero il lungo viaggio per regalare un futuro alla rispettiva prole, catapultandosi in una cultura totalmente estranea: a distanza di anni la vicenda si ripete, le difficoltà si ripresentano, ma le famiglie resistono.

Navneet lavora e vive con la famiglia, ma il suo umore viene quotidianamente messo alla prova dalla cupa e piovigginosa atmosfera inglese: «Volevo fare in modo di rimanere vicina ai miei genitori, che piano piano stanno invecchiando; sentivo che soprattutto dopo la malattia di mio padre ce ne sarebbe stato bisogno. Avrei preferito farlo sotto il sole italiano, non puoi capire quanto mi manchi».

Jagroop non si pente della scelta fatta oramai cinque anni fa, ma dal suo viso traspare nostalgia verso chi per primo seppe scaldargli il cuore facendolo sentire come appartenente ad una comunità: «In Italia puoi entrare da sconosciuto nella maggior parte dei negozi ed essere accolto da un sorriso; in Canada questo non succede, che tu sia straniero o cittadino di un paese o città da molti anni. Se vincessi alla lotteria, tornerei in Italia quanto prima».

Il film si conclude con una breve chiacchierata tra il conduttore e il regista; tutti gli spettatori si alzano in piedi per applaudirlo. Uscendo vedo Harjinder farmi cenno di aspettarlo fuori, mentre la folla di gente sfila coi primi cappotti stagionali sfidando l’umidità novembrina. Mi raggiunge poco dopo senza più badge al collo, con in mano due birre e lo sguardo stanco ma compiaciuto di fine prima serata; raggiungiamo i gradoni di Santissima Annunziata, trovando il silenzio della piazza popolata da ben poche anime notturne.

«Sai Hajy, ho ripensato molto a Navneet e Jagroop durante il film. Ascoltandoli ho capito che entrambi si sono abituati ai rispettivi paesi, nonostante il loro cuore sia rimasto qua».

«La realtà odierna è questa, tant’è che l’Italia viene oramai vista in gran parte del mondo come un estero di serie B, e questo lo sanno anche nel villaggio rurale del Punjab. Non esiste il “sogno europeo”, perché gli Stati più ambiti sono Canada, Stati Uniti e Inghilterra; forse 20-30 anni fa per i nostri genitori la questione poteva essere diversa, ma oggigiorno la scelta di venire qua può solo derivare da conoscenze varie e disponibilità economica. Chi ha i soldi sceglie altre destinazioni. Pensa che nei film bollywoodiani e nelle canzoni l’Italia non viene mai nominata, è come se l’aura posseduta decenni fa fosse totalmente scomparsa».

Alcuni ragazzi attraversano la piazza ascoltando musica tecno, muovendosi a passo cadenzato tanto da richiamare per un secondo la nostra attenzione; sono protagonisti in solitaria, illuminati in pista dalla luna nella sua pienezza sotto gli occhi distaccati del colonnato degli Innocenti.

«Non pensi che questi flussi possano portare alla disgregazione delle comunità come quella del Valdarno o simili?»
«Questo sta già accadendo, e in futuro la cosa non potrà che aumentare. Dispiace molto, ma io stesso penso da tempo di andare via, per me sarebbe più che vantaggioso fare l’ingegnere fuori Italia. Non so per quanto ancora potrò resistere».

Sappiamo che il nostro futuro prossimo si imbatterà in questo processo, ma non abbiamo idea degli effetti a lungo termine che questo avrà nella medesima società che oggi non riesce ad opporvisi. Un paese di anziani, con pochi giovani. E senza di loro, anche la speranza non tarderà a fare le valige.

Mattia Lupini

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