Desta un certo scalpore la notizia che il Senato accademico della Scuola Normale Superiore di Pisa abbia chiesto al Ministero degli Esteri di riconsiderare il bando di collaborazione scientifica tra Italia e Israele. Parliamo di scalpore perché la cultura non dovrebbe avere nulla a che fare con la politica, a meno che non si voglia sottintendere che ogni rapporto di collaborazione scientifica, tra istituzioni del sapere, avviene come mera espressione politica e, forse, anche ideologica. C’entra la guerra nella Striscia di Gaza, ovviamente, ma la sostanza non cambia. Qui non si tratta di esprimere preoccupazione e sdegno per ciò che sta accadendo, di condannare la guerra (e magari anche il terrorismo). Qui, invece, è in atto una forma di boicottaggio bello e buono contro Israele. Come se le università e le istituzioni del sapere fossero tutt’uno col governo di Benjamin Netanyahu.

Ma facciamo un passo indietro. Il Senato accademico della Normale ha approvato un documento, su proposta dei rappresentanti degli studenti, nel quale si afferma la necessità di essere chiamata, “insieme a tutta la comunità scientifica internazionale, non solo ad attestare concretamente la propria solidarietà, ma anche a riflettere criticamente ad ampio raggio sulle ramificazioni del proprio lavoro”.

Citando l’articolo 11 della Costituzione nel documento la Normale “si impegna a esercitare la massima cautela e diligenza nel valutare accordi istituzionali e proposte di collaborazione scientifica che possano attenere allo sviluppo di tecnologie utilizzabili per scopi militari e alla messa in atto di forme di oppressione, discriminazione o aggressione a danno della popolazione civile, come avviene in questo momento nella striscia di Gaza e avvia le procedure per assicurare che tali principi abbiano piena espressione nei regolamenti della Scuola, integrandoli o modificandoli se necessario”.

Ora, passino le tecnologie utilizzabili per scopi militari (anche se, a voler essere sottili, forse 80 anni fa si sarebbero dovuti vietare gli studi e gli esperimenti di fisica che poi hanno portato alla creazione della bomba atomica), ma la messa in atto di forme di oppressione, discriminazione o aggressione che cosa vorrebbe dire? Quale sarebbe il nesso tra le collaborazioni scientifiche, a livello universitario, e le oppressioni o forme di aggressione?

Per porre rimedio a questi “rischi” la Scuola Normale ha chiesto “al Ministero degli Affari Esteri e a quello dell’Università di assicurare alla comunità scientifica che tutti i bandi e i progetti da essi promossi per favorire la cooperazione industriale, scientifica e tecnologica con altri stati rispettino rigorosamente i principi costituzionali e di riconsiderare il Bando Scientifico 2024 emesso il 21 novembre 2023 in attuazione dell’Accordo di cooperazione industriale, scientifica e tecnologica Italia-Israele”.

Il nodo sarebbe questo: talune attività di ricerca e sviluppo di tecnologie civile potrebbero essere utilizzate da Israele a danno della popolazione palestinese. Questo, almeno, è il sospetto.

Il documento chiede poi “il rilascio degli ostaggi (i civili fatti prigionieri da Hamas dopo gli attacchi terroristici del 7 ottobre scorso, ndr) e l’immediato cessate il fuoco nella Striscia di Gaza al fine di scongiurare l’ulteriore aggravarsi di una situazione umanitaria ormai disperata, che si configura ogni giorno di più come un’inaccettabile forma di punizione collettiva della popolazione palestinese”

Le università, in tutto il mondo, dovrebbero garantire la libertà di pensiero, di ricerca e di studio, preoccupandosi in primo luogo di valorizzare il sapere, la scienza e la cultura. Tenendo anche conto che la collaborazione tra le istituzioni accademiche crea ponti fondamentali per la cooperazione tra i popoli. Utilizzare gli atenei, come le scuole, per combattere guerre ideologiche è sbagliato. Oltre a non avere molto senso.

Alcuni anni fa qualcuno si mise in testa di contrastare Israele boicottando, tra le altre, l’azienda Soda Stream, che fabbrica apparecchi domestici per la produzione di acqua frizzante. Si scoprì, poi, che questo boicottaggio andava a colpire in primo luogo gli operai di tale azienda, molti dei quali erano (e sono) palestinesi che lavorano in Israele. L’impianto di Mishor Adumim, in Cisgiordania, alla fine fu chiuso, e la produzione fu spostata nel sud di Israele, togliendo un buono stipendio a centinaia di operai. Aveva davvero senso boicottare Soda Stream? Nell’impianto in questione operavano 1.300 lavoratori: 350 ebrei israeliani, 450 arabi israeliani e 500 arabi palestinesi di Cisgiordania. Stipendi e benefit erano uguali per tutti i lavoratori, a parità di mansioni, indipendentemente dalla cittadinanza e appartenenza etnica.

Chi portava avanti quel boicottaggio, con la famosa campagna BDS (boicottaggio, disinvestimento, sanzioni) era convinto di agire nell’interesse dei palestinesi. Eppure in quello stabilimento arabi ed ebrei lavoravano uno accanto all’altro, gomito a gomito. Era un piccolo seme di speranza e di collaborazione, in una terra martoriata da decenni, con il lavoro che univa le persone e le rendeva, di fatto, assolutamente uguali. Questo, però, per chi si mobilitava nel mondo non contava nulla. Riflettiamo sempre bene sulle conseguenze di ciò che facciamo.

La precisazione del direttore della Normale

Il professor Luigi Ambrosio, direttore della Normale, assicura che non c’è alcuna forma di boicottaggio ma solo la richiesta di una “urgente” riflessione sul rischio del “dual use (civile e militare, ndr) di alcune ricerche scientifiche e tecnologiche.

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