– Federico Vittori – 

Il 15 settembre, alcuni residenti di via Lalli, a Pisa, denunciano dalle colonne de La Nazione la presenza di diversi uomini accampati vicino alla scuola Fibonacci. Il tono è allarmato, preoccupato. Interpellati dal giornale, i cittadini dichiarano in un’unica voce: “La sera quando torniamo a casa non sappiamo mai chi troveremo, e abbiamo paura“. C’è chi si domanda cosa succederà all’indomani dell’apertura delle scuole, e c’è chi fa presente con sdegno che utilizzano l’acqua pubblica delle fontane per lavarsi. Qualcuno arriva a dire “non è giusto che vivano così“, ma con un tono che sembra più preoccupato per sé, che non per altri. Davvero a due passi dalla Questura ci può essere un’oggettiva situazione di insicurezza?

È questa la domanda che mi sorge spontanea di fronte a tutto ciò, e soprattutto alla luce del chiarimento che lo stesso Questore fornisce alla stampa in merito: “Sono persone che con frequenza si presentano ai nostri uffici per formalizzare la domanda d’asilo e noi abbiamo l’obbligo di riceverli. Ma questo presupporrebbe la simultanea collocazione nei Cas, i Centri di accoglienza straordinaria, che sono al momento saturi”. Disperati, insomma, che non si rassegnano al fatto di vedersi continuamente respingere. Esseri umani che non sanno dove stare, accontentandosi di lavarsi a una fontana e dormire all’addiaccio, e che agli occhi di normali e rispettabili cittadini si trasformano in “bivacchi”, suscitando paura, fastidio, rabbia; preoccupazione per la propria incolumità o dei propri familiari.

A nessuno (salvo la prefettura, in seguito intervenuta) è sembrato interessare particolarmente il destino di questi uomini, trattati un po’ da tutti alla stregua di rifiuti abbandonati da rimuovere. Possibile che a nessuno del quartiere sia venuto in mente di portare un po’ di conforto a queste persone con un thermos di caffè, una busta con dei generi alimentari (c’è un supermercato proprio in via Lalli), o anche solo due chiacchiere? Perché a volte basta una parola,
una frase, per mostrare la propria umanità, e fargli capire che non è solo al mondo. Basterebbe solo provarci, ogni tanto. Ma forse questa città sta dimostrando di avere qualche problema con l’accoglienza, che non riguarda tanto i numeri, quanto la comunità.

Quand’ero piccolo ricordo che mia nonna mi diceva: “Non giudicare chi dorme su una panchina, perché quando c’era la guerra e tanti non avevano una casa, sulle panchine ci dormivamo anche noi; si mangiava “pane, midolla e denti”, come si dice a Pisa; e coi tempi che corrono, trovarsi senza nulla è un attimo: bisogna sentirsi fortunati per quello che si ha”. Parole della nonna, ma anche di un mondo in cui il senso di comunità era sicuramente molto più forte di oggi, anche perché il tessuto sociale era in gran parte più sano e coeso. Oggi, invece, è normale che avvenga il contrario. Normale scannarsi per niente, e ignorare o denigrare la miseria e il disagio altrui, mistificandolo spesso come una scelta consapevole. Quella di un frate in un convento è semmai una scelta consapevole, ma chi dorme per strada è ben lungi da sceglierlo. Lo dimostrano casi come questi, ma anche altri.

E lo dimostrano alcuni numeri dell’ultimo rapporto sulla povertà della Caritas diocesana di Pisa, che parlano di oltre tremila persone indigenti seguite dall’ente, e di un’incidenza sul totale della popolazione pisana degli stranieri in stato di povertà dal 46,3 al 57,8 per mille. Significa che, a Pisa, ogni mille abitanti ci sono fra i 46 e 58 stranieri sotto la soglia di povertà. Numeri che, però, non sembrano suscitare più di tanto sdegno nella nostra comunità, dove si guarda a questi fenomeni spesso con diffidenza o disinteresse, senza contare che gli stranieri residenti nel nostro comune sono oltre 12.000 (quasi il 15% della popolazione).

La povertà e la miseria, in fondo, sono perlopiù viste nella nostra società generalmente come anomalie sociali da correggere e nemici da cui per proteggersi, da sempre. Ed è quello che ci sta trasmettendo a mio parere anche la società contemporanea, sempre più chiusa nelle piazze virtuali e sempre meno presente nelle piazze vere, usate ormai nella nostra città come parcheggi o destinate all’abbandono (vedi piazza San Silvestro). Lo stato dei nostri spazi pubblici e sociali, del resto, è anch’esso inevitabilmente rivelatore di una comunità sempre più chiusa, e certamente poco accogliente, visto che accogliente non lo è anzitutto per noi. In questo contesto di abbandono è naturale che nascano anche fenomeni di degrado e criminalità, aspetto quest’ultimo su cui occorre soffermarsi con attenzione.

Perché è pur vero che vi sia un problema legato al rapporto tra il tasso di immigrazione e quello dei reati, ma siamo davvero sicuri di saperlo leggere in modo corretto? O meglio: siamo sicuri del fatto che esista davvero una correlazione diretta e immediata fra stranieri e criminalità? Secondo i dati Eurostat analizzati da Openpolis no. Tanto è vero che, a fronte di un sostanziale aumento dei richiedenti asilo, tra 2010 e 2018 il numero dei condannati in Italia è sceso del 15%. Quello che i dati dimostrano, invece, è una correlazione diretta tra disagio sociale ed economico e criminalità (l’Italia è la terza nazione in Europa), che coinvolge in particolare gli stranieri irregolari, i quali sono molto più esposti a questi fenomeni degli autoctoni e finiscono col cadere in reti criminali con più facilità (il 67% degli irregolari, secondo stime del ministero degli interni). Se invece si rapporta il tasso di criminalità fra italiani e stranieri regolari, il dato è pressoché identico. Ciò significa, in soldoni, che un problema sicurezza esiste con le comunità straniere soltanto laddove non c’è integrazione e accoglienza nella società, e si ha al contrario marginalizzazione, disagio e fragilità.

Riguardo i richiedenti asilo, i numeri sul fenomeno migratorio raccontano per il territorio pisano di circa 800 profughi ospitati in centri di accoglienza del territorio, sugli oltre 3000 presenti in Toscana. Raccontano di un territorio e di una regione dove si accoglie, pur con mille difficoltà e tensioni, ma dove il cittadino fa molta fatica a sentirsi parte di un sistema che coinvolge attivamente la comunità. Generando anche in questo caso una forma di disagio. Un disagio sulle cui motivazioni profonde il cittadino per primo sembra interrogarsi ben poco, forse anche a causa di un dibattito politico su questi temi che in questi anni si è esageratamente polarizzato, mescolandosi strumentalmente con il tema sicurezza (come già detto) o riducendosi a slogan senza alcuna sostanza. In tutto questo, un’Europa che, come dimostra la recente crisi di Lampedusa, continua politicamente ad esistere soprattutto ai suoi confini solo sulla carta, mentre nei fatti latita. Facendo venir meno una catena di responsabilità che agli occhi
dei cittadini è tutto meno che incoraggiante.

Tutti segnali inequivocabili, questi, di una crisi di comunità, politica e sociale, che ci porta (a Pisa come altrove) più o meno inconsapevolmente a marginalizzare i problemi che ci spaventano, senza domandarci come affrontarli a livello collettivo. Perché forse è questa la chiave per una comunità più consapevole, coesa – e anche sicura! – in cui dovrebbe valere ciò che il presidente della Croce Rossa Italiana ha dichiarato di recente commentando la situazione a Lampedusa: “Le persone per noi vengono prima di ogni altra cosa”. Cominciamo a domandarci se anche per noi è così, tentando possibilmente di darci una risposta; una risposta concreta che parta proprio da quei “bivacchi di umanità” negli angoli delle nostre strade e dei nostri quartieri.

Federico Vittori

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