Matteo Fiaschi

A Vancouver c’è un bellissimo pezzo di Toscana. Me ne sono accorto in un freddo giorno di novembre, quando ho visitato la Cappelleria Bertacchi. Entro in questo negozio non sapendo se parlare in italiano o in inglese. Comincio in inglese, presentandomi al titolare, Adi Bertacchi, poi gli spiego che le domande che mi ero preparato erano in italiano e lui mi rassicura: “Andiamo avanti così”. Il suo negozio si trova accanto all’orologio a vapore più famoso al mondo, che suona ogni 15 minuti, grande attrazione per i turisti che visitano la bella città canadese affacciata sul Pacifico. Entrando da Bertacchi si tocca con mano la bellezza dell’artigianato italiano (e toscano). E attraverso i suoi cappelli questa maestria arriva in tutto il mondo, grazie al cinema e alle serie tv.

Cappelleria Bertacchi, Vancouver

Dalla Toscana al Canada. Com’è nata l’avventura di Bertacchi nel mondo?
“Un tempo lavoravo per una startup, di cui ho curato lo sviluppo. Si occupava di comunicazione e marketing. Ho lasciato per iniziare un’altra esperienza, con mio padre, che aveva una bancarella di cappelli a Siena. Aveva deciso di lasciare l’attività così sono stato al suo fianco per sei mesi, dopodiché ho capito che era una cosa interessante. E mi son detto: perché lasciar morire un’esperienza così bella? Nel 2013 abbiamo aperto il primo negozio, a Siena, in via di Città. Il lavoro è andato bene. L’esperienza all’estero è nata un po’ per caso, un po’ perché, da tempo, desideravo fare un tentativo”.

Perché proprio il Canada?
“Un giovane turista di Calgary (Canada) un giorno è venuto in negozio da noi, ha fatto un giro ed è rimasto entusiasta. Gli è piaciuto tutto. Ci ha detto che non aveva mai visto nulla di simile nel mondo, davvero un bel complimento. Poi ha aggiunto, con una certa insistenza: dovreste pensare ad aprire in Canada. L’idea ci piacque e contattammo il responsabile commerciale dell’ambasciata canadese. Abbiamo preso un appuntamento al consolato di Milano, dove ci hanno dato tutte le informazioni utili. Sono stati loro a consigliarci Vancouver. Siamo arrivati nel gennaio 2014, abbiamo visto la città e ci è piaciuta molto: oltre ad essere bellissima è una città ricca, con un sacco di opportunità. Abbiamo deciso di intraprendere questa nuova avventura, che poi ha coinvolto anche mia madre e mio fratello”.

I vostri cappelli sono apparsi in diverse serie tv e film. Come ci siete riusciti?
“La prima volta in realtà è stata un’esperienza abbastanza traumatica, nel senso che non eravamo preparati. Entrò in negozio Greg Kinnear, attore e regista, e si fece un giro tra i nostri scaffali osservando tutti i cappelli. Poi ci disse che gli piaceva l’atmosfera che si respirava da noi e che, visto che stava girando un film, avrebbe voluto i nostri prodotti Abbiamo incontrato la costumista e, dopo un po’, sono andato da loro a presentare il prodotto. Qui a Vancouver abbiamo una sorta di Cinecittà, quindi vengono da noi molte produzioni. Da quel momento abbiamo cominciato a lavorare e siamo diventati un punto di riferimento per le produzioni. Lavoriamo con diversi designer, copriamo sia uomo che donna e offriamo molti prodotti”.

Come vi trovate a lavorare con il cinema?
“A volte le produzioni hanno bisogno di due o tre cappelli dello stesso tipo, perché se c’è una scena dove un attore ne indossa uno e si rovina, magari perché si bagna, ovviamente va sostituito subito. Noi siamo diventati un punto di riferimento per il settore al punto che abbiamo avviato anche un’area dedicata al noleggio. Abbiamo anche una collezione di cappelli e realizziamo prodotti su misura. Ci è capitato di lavorare con diverse produzioni: Good Doctor, Riverdale, il film “Harry & Meghan: Escaping the Palace”. In quest’ultimo caso è stato molto interessante il lavoro, perché abbiamo dovuto realizzare riproduzione fedeli dei cappelli utilizzati dalla famiglia reale britannica. Altre serie, The Man in the High Castle, poi per 5 anni Supernatural. Negli ultimi mesi, con lo sciopero delle maestranze del cinema, il lavoro è un po’ calato, ma stiamo ripartendo. C’è molta riservatezza, nel senso che quando ci chiedono un prodotto per il cinema spesso, giustamente, non vogliono fornirci dettagli, per non far sapere su cosa stanno lavorando e non vogliono assolutamente che noi mettiamo foto online. C’è molta segretezza, giustamente”.

Dove avviene la produzione dei vostri cappelli?
“È strettamente made in Italy, solo i baschi arrivano dal nord della Spagna, dove su questo prodotto hanno una grande tradizione. Prima avevamo un fornitore italiano ma ha chiuso l’attività. Vogliamo lavorare con l’Italia, ma per certi prodotti è difficile: negli ultimi 30 anni, infatti, abbiamo perso molto tessuto manifatturiero. Il feltro, ad esempio, è difficile trovarlo in Europa e in Italia non c’è più un solo produttore. La paglia in Italia non si trova. La rafia, invece, arriva dal sud dell’Africa e poi viene lavorata in Asia. Il Panama, invece, arriva solo dall’Ecuador. Lavoriamo con l’Europa per tutto ciò che è possibile, poi anche con gli altri Paesi, sempre facendo attenzione al fairtrade, cioè che gli operai e gli artigiani vengano pagati in maniera equa. Questo comporta pagare il prodotto un po’ di più, ma a livello etico è un sicuro guadagno. Tutti i cappelli che sono esposti qui in negozio sono prodotti in Italia e poi importati. Abbiamo anche le cravatte, che vengono da Firenze, gli ombrelli, da Firenze e da Milano, le sciarpe da Prato, il sapone invece arriva da Ancona”.

C’è un prodotto di punta che maggiormente viene cercato dai clienti?
“Noi siamo fortunati, nel senso che la nostra collezione normalmente funziona bene a tutto tondo. Le coppoline sono un vero punto di forza, poi ci abbiamo il nostro classico arrotolabile, il cappello hamburger: è sicuramente il nostro cappello di punta, nel senso che negli anni è diventato un grande classico. D’inverno è un impermeabile arrotolabile:  funziona perché è casual, lo porti tutti i giorni e non risulta troppo impegnativo”.

Il made in Italy va forte in tutto il mondo, specie nella moda (e nel cibo). Cosa ci può dire del marchio “Toscana”? Tira anche questo?
“Sicuramente, nell’immaginario comune la Toscana è un paese meraviglioso. Vieni dalla Toscana? E che ci fai qui? È la prima cosa che ti viene chiesta da queste parti. Purtroppo però non è un marchio e questo problema non riguarda solo la Toscana ma l’Italia intera. Noi veniamo sempre comprati ma non sappiamo venderci come si deve”.

Non riusciamo a promuovere come si dovrebbe l’idea di toscanità?
“Purtroppo è la realtà dei fatti. A livello istituzionale non c’è sufficiente lungimiranza, e questo vale a partire dalla politica, dove raramente c’è continuità rispetto a quello che ha fatto un governo precedente. Alla lunga questo paga. Si deve fare sistema, promuovere il brand, a prescindere dal colore politico. È un difetto tipicamente italiano. Per nostra fortuna sino ad ora ci è andata bene lo stesso, perché abbiamo la qualità e l’ossessione per il dettaglio che ci salva. Non dimentichiamo però che il made in Italy l’hanno costruito all’estero, grazie al mercato europeo e a quello nordamericano, non lo abbiamo creato noi”.

Che si dovrebbe/potrebbe fare?
“Dovremo trovare quell’energia nel creare un marchio toscano, non sarebbe un gran problema perché il nome ce l’abbiamo e chi viene in Toscana si rende conto subito cosa vuol dire la nostra terra. Purtroppo non sappiamo valorizzare come si deve quello che abbiamo. E non è nemmeno un problema di istituzioni, siamo noi il problema, perché spesso ci limitiamo a lamentarci senza tradurre la nostra insofferenza in qualcosa di positivo. Io spesso cito un’imprenditrice italiana di New York a cui domandarono: ‘Qual è la differenza reale fra America e l’Italia? O meglio, perché in America si vede tutta questa spinta nel fare che in Italia non c’è? È un problema normativo?’. Lei rispose così: ‘Assolutamente no, non esiste una enorme differenza normativa. La vera differenza è che qua c’è l’ansia di fare meglio della generazione precedente, di fare di più. In Italia, purtroppo, non c’è più questa spinta”.

Progetti futuri?
“Con il cinema e le produzioni tv è difficile lavorare sulla programmazione, però qualche progetto arriva sempre. Il mio sogno, a livello imprenditoriale, sarebbe quello di sviluppare di più le collaborazioni con il territorio. Mi riferisco alle produzioni artigianali. Abbiamo cominciato con cravatte, ombrelli e occhiali da sole. Qui noto che molti amano indossare prodotti italiani, però spesso i negozi se li fanno strapagare, e così non sono alla portata di tutti. In realtà molti prodotti di qualità del nostro artigianato sarebbero accessibili a molti. Non c’è bisogno, per esempio, che una cravatta costi 500 euro solo perché è fatta in Italia. Qui a Vancouver c’è un negozio che vende abiti da uomo dove propongono delle cravatte fatte in Cin, in poliestere, a 80 dollari. Paghi solamente il brand. A me non piace questa cosa. Credo che debba esserci sostanza e qualità nei prodotti, e mi piace poter lavorare con le imprese familiari che producono. Ho trovato un’azienda di due ragazzi di Firenze, che va avanti da quattro generazioni producendo cravatte e ombrelli di altissima qualità. Un’altra, di Milano, un’impresa familiare, andrebbe premiata dal mercato perché è una delle migliori produttrici di ombrelli nel mondo. Il mio sogno sarebbe creare un negozio esperienziale basato sulla toscanità, portando avanti i prodotti della piccola e media impresa toscana. Abbiamo anche l’idea di aprire qualche altro negozio. Non un franchising, deve essere qualcosa di vicino alla famiglia, controllabile, dove vieni perché sai che compri anche un’esperienza, con un certo tipo di qualità e di etica dietro ai prodotti. L’ideale sarebbe poter avere sei punti vendita tra Nord America ed Europa. Vediamo quello che succederà, perché dobbiamo essere sempre pronti a cambiare, piano però”.

E chi lavora da voi come deve essere?
“Non ci piace l’idea che ai nostri collaboratori diamo un manuale a cui devono attenersi e fare esattamente sempre le stesse cose, come delle macchine. Certo, le regole le abbiamo, ma a noi piace che il lavoratore porti se stesso, la sua cultura e la sua esperienza, la personalità è una parte importante della nostra impresa. Lei (indica Gemma, ndr) è un valore aggiunto per noi. È ovvio che se un giorno decidesse di andare a fare altre esperienze da un’altra parte ci dispiacerebbe, ma sarei contento, perché ho contribuito alla sua formazione, tanto quanto lei ha aiutato la nostra impresa a crescere. L’importante, per noi, è costruire un buon team affiatato che ci consenta di lavorare bene. Non saremmo arrivati dove se non avessimo riconosciuto che c’è un valore importante in ogni nostro collaboratore, che ognuno di loro contribuisce a creare la forza del gruppo”.

Vorrebbe aggiungere qualcosa?
“Mi piacerebbe rivolgere un invito, non solo a noi toscani ma in generale a tutti gli italiani…”.

Prego, faccia pure…
“Bisognerebbe cercare di essere più coraggiosi, ma stando attenti a non esagerare con l’orgoglio, perché a volte rischiamo di essere un po’ troppo baldanzosi. Serve sempre umiltà, però siamo un popolo che funziona in tutte le nostre diversità, da Nord a Sud, e ora con l’Europa. Noi lo sottovalutiamo e non capiamo quanto sia importante questa esperienza come gruppo europeo. Bisogna essere più coraggiosi e farci forza del fatto che siamo in Europa, anche chiedendo di più e bussare con forza alla porta ai nostri rappresentanti in Parlamento e ai nostri dirigenti, bisogna chiedere di più per valorizzarsi, le cose non cascano dal cielo”.

Dobbiamo pretendere di più?
“Sì, ma in primis da noi stessi, perché tutto deve partire da lì. Se c’è una cosa che non ti torna, fermati. Se vedi un’ingiustizia o qualcosa di storto, fallo presente, non si tratta di fare la spia, come spesso si dice. Ciò che è necessario è responsabilizzare le persone a partire dalle proprie azioni”.

Matteo Fiaschi

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