Ilaria Clara Urciuoli

Nella giornata mondiale del teatro vogliamo rendere omaggio al palcoscenico ricordando e analizzando il ruolo di Firenze e della Toscana nel panorama nazionale, cucendo dunque insieme passato e presente. Per farlo abbiamo chiesto aiuto a Francesco Tei, critico e giornalista Rai, che ha curato per Nardini Editore il volume “Palco n.10“, una raccolta di scritti di teatro di Paolo Emilio Poesio, celebre firma del quotidiano “La Nazione” che per autorevolezza e passione identifichiamo quasi con il periodo più illustre della scena toscana.

In quelle pagine c’è il racconto di una Firenze molto diversa da oggi: basta sfogliare il testo della conferenza tenuta al Lyceum di Firenze il 28 aprile 1976 dal titolo “Il teatro a Firenze nella prima metà del secolo”, in cui Poesio illustra la natura tutt’altro che “antiteatrale” della città (così l’aveva definita negli anni ‘50 l’allora sottosegretario alla presidenza del consiglio).

Ricostruisce di quegli anni la vitalità fiorentina che vide , ad esempio, nel 1907 arrivare Edward Gordon Craig, figlio della celebre attrice britannica Ellen Terry: questa città per lui era il luogo ideale dal quale partire per riformare il teatro, in continuità con il ruolo che nel Quattrocento tale arte aveva in Toscana. La scuola fu inaugurata il 27 febbraio del 1913, per trasformarsi, poco dopo un anno, in un deposito di materiale bellico. L’imminente guerra mieteva una vittima oltre le tante che avrebbe lasciato poco dopo sui campi di battaglia.

In queste pagine si trova anche il racconto della nascita del Piccolo Teatro di Firenze (con alle spalle una realtà economica ben diversa da quella del Piccolo di Strehler a Milano). Si attraversa quindi il “periodo felice e quasi mitico” degli anni Sessanta-Settanta in cui Poesio era critico de “La Nazione”. Un’avventura durata vent’anni, durante i quali la straordinaria vitalità delle scene a Firenze vedeva la nascita di iniziative come la Rassegna Internazionale dei Teatri Stabili e la Scuola di Drammaturgia di Eduardo De Filippo.

Altro momento fondamentale per la città fu la nascita del Teatro Regionale Toscano, che vide, sotto la direzione di Poesio, il lancio e l’affermazione del nuovo Teatro della Compagnia. Tra i saggi riproposti troviamo a questo proposito un intervento uscito nel novembre del 1985 sulla rivista monografica diretta da Renzo Ricchi, “Quaderni di teatro“. Il titolo è eloquente: “Un contributo importante alla cultura teatrale”.

Questo volume dunque, oltre ad essere l’affettuoso omaggio a un grande maestro della critica teatrale, è anche l’occasione per riesaminare il ruolo che Firenze ha avuto in questo settore.

Cosa rimpiange, Tei, di quegli anni d’oro?

“Premetto che quelli di cui parla Poesio sono anni che io non ho visto o che ho visto quando ero appena un bambino. Non si tratta quindi di un rimpianto personale. Posso però certamente dire che c’è stata un’epoca in cui Firenze aveva un peso maggiore. Aveva un peso maggiore sia nel giornalismo – penso ad esempio al suo quotidiano, “La Nazione”, che era tra quelli che più contavano in Italia e che poi per motivi vari ha perso peso – sia nel panorama teatrale, allora molto diverso da quello attuale. C’erano meno cose ma forse più importanti. A Firenze il punto di riferimento era la Pergola ed era un punto di riferimento per tutta Italia, dove avvenivano prime nazionali, nascevano spettacoli anche se poi non venivano prodotti lì. Era un teatro che ospitava grandi novità, dove debuttavano Eduardo, Strehler, i grandi nomi. C’è da dire però che questo decadimento non ha colpito solo Firenze: il mondo teatrale era più autorevole e forse più seguito perché, come in tanti hanno detto, era in stretto rapporto con la televisione di allora che aveva un canale, massimo due, sul quale seguivamo gli sceneggiati, che erano sostanzialmente teatro filmato. Ecco allora che gli attori che diventavano popolarissimi in tv poi andavano in teatro e c’era un interscambio e un’attesa continua”.

Nella sua introduzione “sentimentale” scrive: “Con il passare degli anni il teatro si è lentamente chiuso nella sua torre d’avorio, indirizzando le sue più fresche energie verso una ricerca che, convincente o meno, non era capace di comunicare con la quasi totalità della gente”.

“L’attenzione della critica si è indirizzato verso il teatro di ricerca che Poesio, quando c’erano grandi nomi come quelli di Carmelo Bene, Leo de Berardinis, gli stessi Magazzini, Tiezzi, Lombardi, è stato il primo a incoraggiare. Poi però col passare degli anni gli addetti ai lavori hanno dato sempre più peso a una ricerca fatta per lo più da generazioni giovani in cui tuttavia non c’era una grande qualità o profondità ma che per fini non chiari venivano sostenuti. Il teatro qui si è frantumato e c’è tutta una generazione di nuovo teatro (o quasi nuovo) che è fatto di gruppi molto di nicchia. Questo teatro seguito dai critici, che vince anche premi, ha poi un impatto sul pubblico bassissimo mentre quello che continua a funzionare è il teatro “tradizionale” per non dire musical o teatro leggero”.

Cambia anche negli anni la figura del critico…

“La critica (non solo quella teatrale) è andata gradualmente scomparendo dai giornali o resta
estremamente marginale. Prima c’era un rapporto stretto tra critico e pubblico, cosa molto evidente con Poesio. Oggi non è più così. Volendo cercare le cause, la necessità di risparmiare può essere una ragione, ma non la sola, per cui la figura del critico autorevole (tipicamente esterno alla redazione) è stata quasi bandita dalla carta stampata. Resiste nelle redazioni on-line che però, se si fa eccezione per le grandi testate, hanno un ridotto numero di lettori”.

Cosa ci dice sullo stato di salute del teatro in Toscana?

“Se pensiamo alla Pergola o al Metastasio di Prato questi sono teatri che producono tanto ma non sempre con oculatezza e spesso non riescono a raggiungere grossi risultati di pubblico. Meriterebbero di più. Sono teatri importanti, dovrebbero fare cose più importanti e di livello più alto sia come produzioni loro sia come progetti ospitati”.

È un problema di soldi?

“Mah, no. I soldi in parte ci sono ma a volte vengono spesi male. Poi c’è anche un discorso economico che viene invocato e c’è, ma si può anche fare bene con meno soldi”.

Critico e giornalista della Rai, cultore e appassionato di teatro, probabilmente pochi hanno un punto di vista ampio come il suo sul palcoscenico: c’è qualcosa vorrebbe trovare ma difficilmente trova quando si apre il sipario?

“Vorrei che fosse dato spazio ai giovani, ma non in quanto parte di quei gruppi di moda nel giro ristretto della ricerca di cui parlavamo prima. Vorrei vedere giovani selezionati con cura da un teatro che crede in loro facendone una compagnia alla quale dia poi occasioni professionali continuative. Pochi giorni fa, ad esempio, ho visto al Florida “Festen”, uno spettacolo bello prodotto da vari enti del Nord. Al di là del fatto che sia stato o meno di mio gradimento, mi ha fatto piacere trovare sul palco, accanto ad un paio di attori più esperti, un gruppo di sette o otto attori giovani di circa trenta o trentacinque anni. Una compagnia, dunque, di giovani. Ecco, una cosa del genere accade molto di rado in Toscana, se non mai”.

C’è qualche autore che vorrebbe vedere più rappresentato oggi?

“Non particolarmente. Potrebbe, sì, essere dato spazio ad autori contemporanei italiani e stranieri anche nel tentativo di avvicinare un pubblico diverso al teatro. Ma la questione vera non è l’autore: anche un Pirandello può essere nuovissimo e interessare le nuove generazioni, se fatto bene”.

Dalla sua nascita, o per lo meno dalla sua affermazione in epoca classica, il teatro era parte fondamentale della vita civile tanto che Pericle istituì il Theōrikón per renderlo accessibile a tutti. Qual è o dovrebbe essere secondo lei la funzione del teatro oggi? Ha gli strumenti per essere all’altezza di questo compito?

“Sicuramente avrebbe gli strumenti anche perché per sua natura può approfondire i temi essenziali del presente nella sua povertà se si vuole. Il cinema, disponendo di tanta tecnologia moderna, è tipicamente più spettacolare, concentrato sulla visualità, sull’esteriore. Il teatro è parola, quindi può essere analisi, pensiero, profondità”.

Molto spesso si vedono spettacoli fatti da pochissime persone. Cosa ne pensa?

“Questo è un discorso puramente economico”.

Una necessità che non va a intaccare la qualità, o sì?

“In teoria uno spettacolo con poche persone non è peggiore di uno con tante. Certo vedere una stagione di solo monologhi evidenzia che qualcosa non va. Per non parlare degli spettacoli che sono soltanto delle letture”.

Il teatro amatoriale: sono molte le compagnie di non professionisti che resistono sul territorio. Cosa ne pensa di questo fenomeno?

“Ci sono delle zone della Toscana e dell’Italia in cui il teatro amatoriale ha un tessuto anche abbastanza nutrito. Nella zona di Firenze e Prato non prospera particolarmente mentre in province come Pisa ha più piede ed è socialmente e culturalmente meritevole. Certo dal punto di vista economico questa è una realtà penalizzata. Per di più la vita di questi spettacoli si esaurisce nell’arco di pochi chilometri: viene rappresentato nel posto dove nasce, in qualche paese vicino, partecipa magari a qualche concorso, ma poi si esaurisce. Diverso è invece parlare di compagnie semi-professionali che a volte raggiungono buoni livelli, ma io non li collocherei nell’amatoriale”.

Un’ultima domanda: come risponde il pubblico al teatro?

“In assoluto la risposta non è esaltante ma se si guarda anche il cinema vediamo una situazione analoga, se non peggiore. C’è da dire però che nei piccoli e medi centri il teatro raggiunge ancora un pubblico ampio perché resiste il rito sociale, la dimensione quasi mondana. Lì il teatro è un patrimonio sentito ancora come tale. In città ha più difficoltà, ma non è un disastro, nemmeno dopo il Covid”.

Guardare, osservare ma anche considerare, contemplare, riconoscere. Termini che spostano
gradualmente l’attenzione dalla pura osservazione alla sfera della comprensione. Torniamo all’etimologia della parola teatro e gustiamoci l’emozione sospesa a mezz’aria quando scorre la stoffa rossa e pesante. Si apre il sipario.

Ilaria Clara Urciuoli

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