– Ilaria Clara Urciuoli –

Palazzo Strozzi apre le porte, già squarciate da La Ferita di JR, per raccontare una storia avvincente, quella nostra del secondo Novecento, attraverso la mostra American Art 1961–2001, visitabile dal 28 maggio al 29 agosto. Riferimenti fondamentali di questa narrazione sono le date, colonne d’Ercole o cornice entro li quali si muovono gli eventi, dalla guerra del Vietnam all’attentato delle Torri Gemelle, trasfigurati in quadri, fotografie, video, sculture e installazioni. Nella mostra – curata da  Vincenzo de Bellis (direttore della Visual Arts del Walker Art Center di Minneapolis) e Arturo Galansino (direttore Generale della Fondazione Palazzo Strozzi) – troveremo dunque una produzione artistica che travalica i confini delle singole discipline per dare voce alla realtà di una nazione, quella americana, che nel mostrare la sua forza nel panorama internazionale scopre anche una propria fragilità che si snocciola proprio nel tema della giustizia sociale e dei diritti civili.

L’arte allora si fa momento di riflessione e di rielaborazione di un mondo che cambia e nel quale le sfide si moltiplicano e hanno nomi diversi: consumismo, femminismo, razzismo sono alcuni di questi temi che suonano ancora attuali ottant’anni dopo la realizzazione dei primi lavori presentati nelle sale di Palazzo Strozzi. La mostra parte dal contestualizzare il cambiamento portato della Pop Art presentando alcune opere ad essa precedenti. Entra quindi nel vivo degli anni Sessanta e di quella rivoluzione artistica attraverso le serie Campbell e Ketchup di Andy Warhol, in cui i prodotti della società dei consumi entrano a gamba tesa nell’arte, e con le Sixteen Jackies che richiama, quasi sotto forma di negazione, la grande fiducia instillata dall’elezione di J.F. Kennedy e che, poco dopo, si traduce nella riproposizione ossessiva (come ossessivi possono essere i mass media schiacciati dalle logiche di mercato e di audience) della giovane e famosissima vedova.

Dalla Pop Art si passa al Minimalismo degli anni Settanta in cui il togliere, il sottrarre diventa centrale nel percorso artistico, qui presentato nella sala che prende il nome emblematico di Less is more, celebre frase dell’architetto tedesco Ludwig Mies van der Rohe, che ritornerà centrale in molti campi, dall’arte alla linguistica, alla moda ecc. Tuffandoci negli anni Ottanta un tema domina la mostra: quello dell’AIDS che oltre a essere centrale per le sfide in campo medico, lo diventa anche per la sua capacità di chiamare in causa molte questioni socio-politiche e di creare forti discriminazioni. La mostra presenta in un unico percorso nomi importanti come il già citato Andy Warhol, Mark Rothko, Louise Nevelson, Roy Lichtenstein insieme ad artisti chiamati a essere i futuri rappresentanti dell’arte a noi contemporanea. Le ultime tre sale danno spazio a queste voci, tra le quali si affermano donne e artisti provenienti da culture fino ad oggi sottorappresentate. Tra queste Kara Walker cui è dedicata l’ultima sala e che rappresenta dunque un punto di approdo di questo percorso: con le sue opere, realizzate dal 1998 al 2001, la Walker ci racconta la schiavitù e la discriminazione cui sono soggetti gli afrodiscendenti, facendoci necessariamente tornare alla mente George Floyd e il triste episodio che un anno fa ha avuto come sfondo proprio Minneapolis, la città dalla quale arrivano le opere esposte.

In questi giorni che ci vedono impegnati a immaginare e programmare un futuro migliore, più sostenibile e equo, in cui politica e società si confrontano sul Piano nazionale ripresa e resilienza e sul ddl Zan, questa mostra supporta la nostra riflessione con gli strumenti dell’arte, quelli dell’intuizione che ci fa andare oltre la semplice e necessaria consecutio logica e che ci parla e ci provoca attraverso le storie e le sue tante suggestioni.

Ilaria Clara Urciuoli

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