Attrice versatile nonché psicoterapeuta, Laura Cioni è già nota al pubblico fiorentino per aver portato sulle scene, nella passata stagione, “Love Lee” di Chiara Guarducci, sulla storia della nota serial killer americana, ha appena debuttato al Teatro del Borgo con un altro monologo dal forte impatto drammatico: “Pazza Medea” di Roberto Riviello. L’abbiamo incontrata subito dopo lo spettacolo e al termine di un lungo e caloroso applauso.

Se l’aspettava un pubblico così numeroso in sala e soprattutto una vera e propria ovazione dopo la sua interpretazione di “Pazza Medea”?
“Ne sono molto contenta. Si spera sempre in un successo e si lavora per avverarlo, ma non è mai scontato che arrivi”.

Vuole spiegare brevemente ai nostri lettori chi è questa Medea, e perché viene etichettata come ‘pazza’?
“La Medea di Roberto Riviello è contemporaneamente la tragica eroina mitica e una donna finita in manicomio per aver ucciso i figli dopo essere stata abbandonata dal suo uomo per un’altra. La trama mitologica originaria, la sua storia con Giasone, viene rispettata, ma Riviello riscrive le sorti di questa donna/Medea attualizzandola e ponendola in manicomio. La protagonista rinarra al pubblico le sue vicende, ad eccezione di quella che non riesce a ricordare: l’omicidio dei figli è soggetto a rimozione, si pone come un’amnesia che la solleva dal ricordo della sua azione più atroce. Dunque, “Pazza Medea”. Perché definirla così? Innegabile, una donna che uccide i propri figli è tragicamente preda di una folle pulsionalità violenta. Ma questa non è l’unica follia della nostra, piuttosto l’ultima, la più efferata. La prima follia compiuta da Medea è una follia d’amore. Come il testo di Riviello ricorda, Medea, per amor di Giasone, mette pericolosamente i suoi poteri di maga al servizio dei piani di lui, incanta il drago per fargli rubare il Vello d’Oro di suo padre, lascia la patria per seguirlo, ammazza ferocemente suo fratello, e Giasone non le impedisce alcuno scempio, anzi gode il privilegio di avere una maga ai suoi servizi. Poi, a un certo punto, rimuove tutta la potenza di questa donna e pensa di poterla abbandonare impunemente, addirittura di destinare all’esilio anche i figli, con una leggerezza che ha i tratti di una sottile amnesia. Chi dei due è più confuso? Chi più responsabile? Il rischio di “pazzia” insito in questa mitica storia, che il titolo di Riviello mette subito in luce, ci riguarda tutti, uomini e donne, ed è per me un invito a continuare a pensare alla complessità dei rapporti e della nostra struttura identitaria. Certo Medea ha ucciso i figli, orribile, ovviamente condannabile, ma la psicoanalisi lascia fare il suo lavoro alla giustizia e alla psichiatria, perché si occupa di altro, di comprendere e per comprendere bisogna rinunciare alla tentazione di definire, di situare una volta per tutte il colpevole o il folle”.

Dopo il personaggio di Aileen, la prostituta assassina seriale, adesso ha scelto di vestire i panni di un’altra donna criminale, anche se di natura mitologica. C’è un fil rouge tra queste due figure femminili così inquietanti?
“Parto da ‘Pazza Medea’. Come ho già detto Riviello nel suo testo solleva Medea dal ricordo dell’efferrato crimine contro i figli, questo significa che ha rimosso la parte di sé più violenta. Ha rimosso anche la furiosa rabbia per Giasone, motore del suo delitto finale, perché afferma più volte di amarlo ancora e di averlo perdonato del suo tradimento. In questo senso la Medea di Riviello è meno inquietante rispetto all’eroina mitica, viene parzialmente bonificata dalla sua distruttività. Con il personaggio di Ailleen Wuornos, ritratto dalla penna di Chiara Guarducci, siamo invece in presenza di una donna che anziché rimuovere la sua violenza la reclama e declama, la “sfoggia”, per così dire, come arma di difesa dalle ingiustizie subite nell’infanzia dal padre e poi dagli uomini durante la prostituzione. Ma nessuna delle due si salva: la prima resta in manicomio, la seconda finisce con la pena di morte. Né la rappresentazione di un femminile bonificato, né la rappresentazione di un femminile fallicizzato sembrano offrire una via per uscire indenni dal patriarcato; questa per me è la questione sollevata dai due personaggi.

Quanto le è servita la sua formazione psicanalitica per entrare nella mente di Medea?
“È impossibile entrare nella mente di chiunque. È da questa impossibilità che nasce la psicoanalisi come tentativo di restituire, ricostruire possibili sensi alle nostre sofferenze, abiezioni, bizzarrie. Possibili. Ricostruire non equivale a penetrare, comprendere non è sciogliere un mistero. Però, se le congetture sono buone, dal teatro, come dall’analisi, si esce con la sensazione che qualcosa di vero sia stato toccato, l’effetto ha in genere il sapore del sollievo e della bellezza. Se gli spettatori sono usciti con uno di questi sapori forse ho compreso qualcosa”.

Oggi si parla soprattutto di femminicidi, visto il numero delle donne vittime della violenza dei loro partner. Lei e l’autore del monologo, invece, portate sulla scena la storia di una donna che ammazza i suoi figli. Non le crea imbarazzo questo?
“La funzione del teatro è quella di esporci agli scandali delle nostre contraddizioni, che la legge, dal canto suo, ha il compito di sciogliere per ripristinare l’ordine. In questo senso il teatro è sempre imbarazzante, fuori dalla morale e dalla logica della soluzione. Fare l’attore implica sostenere questo imbarazzo, testimoniare un perturbante che ci attraversa tutti. Un attore non può mai cedere né al mito della bontà, né a quello della cattiveria assolute. È una soglia. Dirlo per l’analista è scontato”.

Foto di Giampaolo Becherini

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