Ilaria Clara Urciuoli

La mostra ospitata fino al 30 aprile a Palazzo Pitti su Rudolf Levy è un percorso nelle dissonanze della storia, nella forza di un uomo di resistere alle difficoltà, al dubbio, all’incertezza, all’ingiustizia, allo sconforto, di aggrapparsi a ciò che gli resta – tubetti di colore, pennelli, volti amici, una natura morta, il sole caldo – per onorare la vita. Classe 1875, Levy è un ebreo nato a Stettino, in Germania; pittore promettente e buon conoscitore del Realismo e della pittura an plein air, nel 1903 si sposta in Francia, a Parigi, dove frequenta l’Académie Matisse che poi dirigerà per qualche anno e dove trova una spinta verso la sperimentazione.

Questo fino alla Prima Guerra Mondiale, al ritorno in patria per arruolarsi volontario nell’esercito del Kaiser Guglielmo II. Nel duro dopoguerra tedesco qualche trasloco (Monaco, Düsseldorf, Berlino), un matrimonio (che finirà qualche anno dopo), le mostre, una personale e la consapevolezza di avere delle carte da giocare nel mondo dell’arte. Poi un anno, il 1933, e un uomo che afferma con forza le sue idee antisemite, quindi Nizza, Rapallo, la Spagna. La realtà si complica: 1935, le Leggi di Norimberga, le difficoltà economiche che sopraggiungono; poco dopo la guerra civile e l’affermarsi di Francisco Franco. Maiorca non è più sicura, e allora Marsiglia, New York, Ischia, l’assolata Ischia: ma gli eventi corrono con loro la follia degli uomini.

1938, le leggi raziali. Levy deve lasciare Ischia. Sta per un anno a Roma poi si sposta a Firenze. Alloggiato alla Pensione Bandini sembra qui trovare un po’ di serenità e realizza oltre cinquanta dipinti. Sta lavorando al ritratto di una giovane fanciulla intenta a suonare la chitarra quando, il 12 dicembre 1943, viene arrestato e condotto alle Murate. Qui scrive alla proprietaria della pensione: “Avrete saputo della disgrazia che mi è capitata. Sono in prigione delle Murate da più di una settimana. Dio solo sa quando potrò uscire. È duro per un uomo di 68 anni che non ha mai fatto male a nessuno di trovarsi in questa situazione. Pazienza”. A casa lo aspetta quel ritratto, quella fanciulla dall’aria scontrosa. Ma un treno lo allontana dai suoi colori e lo porta a Milano, poi da lì ad Auschwitz. Il resto è silenzio, quel silenzio in cui è sprofondata anche la sua arte, bollata dal regime come “degenerata”.

Con una retrospettiva Palazzo Pitti e il museo della Deportazione e della Resistenza di Prato vogliono rendere omaggio a questo espressionista del gruppo fauves che al colore affida energia, positività, vita proprio mentre le espressioni dei ritratti tradiscono preoccupazione, distanza, amarezza.

A latere della mostra i documenti che ripercorrono la vicenda biografica di Levy ci inducono a soffermarci sull’uomo, quello stesso che poco prima abbiamo trovato nel tratto veloce del carboncino usato, a distanza di anni, per realizzare tre schizzi (tanto differenti malgrado la posa comune) per un autoritratto.

Ilaria Clara Urciuoli

Autore

Scrivi un commento