Chi la settimana scorsa avesse varcato i sacri portali del teatro verdiano di Pisa per assistere all’opera lirica “Don Pasquale” di Gaetano Donizetti, avrebbe potuto pensare che si stava testando la veridicità di quella nota teoria della relatività di Einstein per cui ogni spirito ingenuo sogna di poter realizzare, un giorno, dei viaggi nel tempo. Infatti, le immortali note del compositore bergamasco, nate a Parigi nel 1843, allietavano il pubblico gaudente grazie alle ottime voci di cantanti che, però, indossavano vestiti di fogge non ottocentesche e dalle tonalità sgargianti, circolando in mezzo ad oggetti altrettanto sfacciatamente policromi simili ai prodotti tecnologici degli anni Sessanta del secolo scorso.

Queste belle e accattivanti scene, frutto al pari dei costumi dell’ingegno creativo di Davide Amadei, erano infatti complete di auto, razzi, elettrodomestici, ben sconosciuti ai primi spettatori dell’opera. Al contempo, la protagonista Nerina, fedele alle parole un po’ obsolete e quindi stranianti per l’epoca in questione presenti nel libretto scritto da Giovanni Ruffini e dello stesso compositore, reclamava carrozze e cavalli dopo essere smontata da una sfavillante Vespa come una novella Hepburn a giro per Roma.

Insomma, al Verdi si è assistito ad un prodigioso balzo in avanti per la vicenda narrata dal prolifico autore lombardo che, in questa opera buffa, racconta la storia dell’anziano e arzillo Don Pasquale, scapolo voglioso di impalmare una consorte e pure deciso a negare al nipote Ernesto la mano della spiantata vedova Norina. Solo grazie un perfido stratagemma messo a punto  dal Dottor Malatesta, amico (?) del protagonista, il giovane riuscirà a portare a termine il suo sogno amoroso, sia pur a discapito dell’attempato ma ancor vispo zio.

La morale finale, cantata dalla furba Norina, è amara per l’ancor voglioso Don Pasquale beffato nei suoi desideri di una sia pur tardiva vita coniugale: “Ben è scemo di cervello chi s’ammoglia in vecchia età. Va a cercar col campanello noie e doglie in quantità”. Quest’ ardito e intelligente “ritorno al futuro” è stato ordito dal sagace e brillante regista Gianni Marras, per cui i personaggi buffi dell’opera sono dei precursori di quei personaggi italiani che nel cinema nostrano degli anni sessanta del secolo scorso hanno dato lustro nel mondo alla famosa “commedia all’italiana”.

L’opera, seppur così congegnata, è rimasta ligia alle consegne musicali del compositore che dall’alto avrà senza dubbio approvato. La rappresentazione è risultata gradevole, simpatica e intelligente in ogni suo momento, grazie alle trovate registiche ma soprattutto alle ottime interpretazioni dei cantanti. Elisa Verzier, una Norina immersa negli anni dei primi programmi tv ma di alto livello canoro, ma non da meno è stato l’apporto del suo spasimante Cesàr Cortés, con tanto di ciuffo e movenze alla Little Tony ante litteram. Per non parlare dello smanioso Don Pasquale così ben reso dal solido ed esperto Michele Giovi, coadiuvato dal vivace e saldo Dottor Malatesta di Daniele Terenzi; insieme a loro hanno ben contribuito all’ottima resa il Notaro Tommaso Tomboloni, la cui maschera ha riportato sul palco persino il buon, vecchio, Groucho Marx, e il valente mimo Daniele Palumbo.

Ma se il pubblico ha manifestato il suo apprezzamento finale con reiterate salve di applausi bisogna dare il merito all’ottimo Maestro concertatore e direttore Carmine Pinto, mano salda di sicuro magistero nel condurre l’ottima orchestra Archè, mentre l’omonimo coro, condotto dal Maestro Marco Bargagna, ha preso parte attiva alla rappresentazione con sapienza in linea col clima ironico voluto dalla regia. Senza dimenticare l’apporto basico ed efficace del disegno delle luci di Michele Della Mea.

È stata, per concludere, una brillante idea del teatro pisano quella di riprendere un allestimento ideato dal regista una ventina di anni fa per il festival di Spoleto messo più volte in scena a Bologna e ultimamente anche a Trieste. Non ci resta che attendere un “Don Giovanni” mozartiano su Venere, il pianeta della dea dell’amore, perché se queste operazioni di traslazione temporale, come in questo caso, rispettano l’autore e il pubblico, possono senza dubbio essere accolti col sorriso anche dai puristi e tradizionalisti dal momento che favoriscono la conoscenza dei capolavori di quest’opera lirica meritevole di perenne attenzione e cura.

Guido Martinelli

 

 

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