Paolo Lazzari

Chiusi in casa, a doppia mandata. E quando usciamo, guardiamo gli altri con quella dose di diffidenza che ti viene instillata, suggerita, dall’istinto di sopravvivenza. La vita ai tempi del coronavirus è un giardino tappezzato di cocci di vetro, da percorrere scalzi. Un giorno ti svegli e cambia tutto: prima le notizie arrivano lontane, quasi in dissolvenza, e fregartene è un esercizio che riesci a sbrigare con disinvoltura: “Ma sì, dispiace, ma è talmente lontano da noi. Figurati se ci capita”. Poi un giorno capita e l’ordinarietà che ti è stata borseggiata appare improvvisamente straordinaria.

A cominciare dal lavoro: chi può, si porta avanti con lo smart working. La tecnologia che per una volta ci viene in soccorso, agevolando il cammino ed accorciando le distanze. Ma, certo, d’un tratto capisci tutta la differenza che passa: non ti confronti più con i colleghi, non prendi un caffè fuori, non sorridi alle solite battute, semplicemente perché non c’è nessuno a farle. Quanto ne vorresti una dose, proprio adesso!

Che dire poi dei rapporti personali, con parenti, amici, amori consolidati ed amori possibili. Soppesi la questione – perché tanto hai un mucchio di tempo – e pensi che proprio quest’ultima categoria sia quella ad aver pagato il prezzo più alto. Le coppie riescono a sfangarla, in qualche modo, spingendo il limite della sopportazione un po’ più in là. I parenti magari li vedi lo stesso, se stanno vicino a te. Gli amici, capirai: a volte spariscono per mesi di fila, non facciamone un dramma. Ma che ne è di quelli che si stavano innamorando prima che scoppiasse la pandemia? Di quelli che la speranza era già qualcosa di più di una luce flebile e le reazioni elettrochimiche nei cervelli avevano spostato ogni cosa, passando euforia, voglia di vivere e qualcosa di molto simile alla felicità? Che sfiga, eh. Certo, Skype e le videochiamate su whatsApp accorciano le distanze, ma sono pagliativi incastrati in un oceano di solitudine.
Se la pandemia la affronti da single, non è la stessa cosa. Magari hai un cane e cominci a parlarci: ti basta poco, però, per scoprire che il detto “gli animali sono meglio delle persone” resta confermato, ma che una risposta ogni tanto non dispiacerebbe, ecco.

Nel frattempo le tv e i social pompano notizie con la cadenza di un distributore di bibite gelate nel deserto del Mojave: tutt’altro che un’oasi di speranza. Allora cerchi conforto nelle tue passioni: concludi quel romanzo che avevi lasciato indietro, scopri gruppi musicali di cui ignoravi l’esistenza, impari una lingua, fai esercizio fisico. Ogni mattina ti alzi e pensi che questo mese che ti è stato rubato sotto al naso può essere un’occasione unica per portarsi avanti. Per avvicinarti alla versione migliore di te stesso.

Poi il divano ti tradisce, Netflix ti avviluppa, la polvere aumenta, dentro casa e dentro di te. Perché anche se provi a prenderla alla leggera ti accorgi che la gente sta morendo. Che gli ospedali sono al collasso. Che probabilmente due settimane non basteranno per ribaltare tutto e che le nostre vite saranno stravolte ancora a lungo.

Alcuni piangono, altri attaccano striscioni con su scritto “Andrà tutto bene”, altri ancora dispensano consigli senza sosta. Ti accorgi che le persone hanno paura e che quello che prima ti sembrava così scontato adesso è una conquista monumentale. Ieri sera esci per andare al supermercato ed un tuo caro amico ti saluta con un cenno del capo, andando a dritto. Forse è giusto, ma fa comunque male. In mezzo a tutto questo, tuttavia, affiora anche una voglia di aiutarsi che – come direbbe Guccini – è talmente grossa da “fare luce”. Gli italiani riscoprono la solidarietà, la voglia di rendersi utili: come quelle coinquiline che a Pisa, dove hai fatto l’università e lavori, si sono proposte di fare la spesa e portarla a casa alle famiglie anziane del palazzo. O come la tua amica che vive in un altro condominio in Versilia ed ha sempre fatto casa/lavoro, senza conoscere mai i vicini: ora stanno parlando dai rispettivi terrazzi, finalmente. “E tu come ti chiami? Eleonora, piacere”. Vedi cose come queste e pensi che anche dalle crisi più grandi può nascere qualcosa di bello: un’opportunità di riscoprirci più uniti, forse. Un pezzo di speranza grattata via con la forza di chi non si rassegna, sicuramente.

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