– Roberto Riviello –

La controffensiva dei presidi è iniziata a fine maggio, con l’arrivo improvviso di questa calura praticamente estiva. Ma di che guerra stiamo parlando? Di una guerra, grazie a Dio, non cruenta e criminale come quella scatenata da Putin in Ucraina, ma pur sempre conflittuale e lacerante. Potremmo chiamarla: guerra dell’ombelico scoperto o, per usare un anglicismo molto diffuso, del dress code.

Succede già da un bel po’ di anni che nelle scuole italiane, specialmente alle superiori, con l’arrivo della bella stagione ragazzi e ragazze tirino fuori dagli armadi jeans bucati e stracciati, bermuda e sandaletti, top che lasciano scoperto il ventre e persino orribili canotte da bagnino. E naturalmente con tatuaggi sempre in bella mostra e sempre più invasivi sui loro corpi adolescenziali.

Certo è che a questi giovani che escono di casa la mattina come se andassero al mare, i genitori, ai quali spetterebbe in primis l’onere di insegnare la buona educazione, non dicono niente: forse perché concordano con quel modo di s-vestirsi o forse perché non ce la fanno a imporre loro delle regole di comportamento.

Ma poi entrano a scuola e qui dovrebbero trovare un’istituzione educativa con norme chiare e inderogabili. Non è complicato né impossibile indicare le regole da seguire: l’abbiamo visto negli anni della pandemia quando a scuola ci hanno fatto marciare seguendo dei percorsi stabiliti come fossimo in caserma, indossare mascherine per quattro o cinque ore, andare in bagno solo dopo aver firmato in un apposito registro eccetera. Nessuno si è opposto e tutto è filato liscio: perché i giovani non sono necessariamente trasgressori e menefreghisti. Se però hanno davanti la chiarezza e la fermezza dell’autorità; autorevolezza e non autoritarismo; dialogo ed ascolto sempre, ma poi decidono gli adulti sia in famiglia che a scuola.

Da Padova a Cosenza, passando per l’Istituto comprensivo Oltrarno di Firenze, ci sono stati diversi dirigenti scolastici che, correttamente, hanno richiamato con comunicazioni specifiche gli studenti a vestirsi in modo consono; e di conseguenza hanno sanzionato o soltanto ammonito le ragazze e i ragazzi che pretendevano di stare in classe come se fossero in villeggiatura. Perché il punto è questo e va precisato: nessuno contesta la libertà individuale che trova anche nell’abbigliamento una sua giusta modalità di espressione. Ben vengano minigonne, top, bermuda e infradito se si va in spiaggia o anche ai giardinetti del quartiere. Ma il dress code vuole che ci si debba vestire – coprire o scoprire – in relazione al luogo in cui ci si trova.

Se io adulto vado in chiesa o in biblioteca, e conosco la buona educazione, non indosso canotta e bermuda. È una questione di rispetto e non solo di bon ton. E se tu ragazzo o ragazza vai a scuola per studiare, devi vestirti decentemente; così come ti chiederà di fare il tuo datore di lavoro un domani. E a quei progressisti che tirano fuori il solito argomento dei diritti inviolabili ( se ne trovano in giro e non solo tra i giovani) bisogna ricordare ancora una volta che accanto ai diritti ci sono i doveri. Ma purtroppo a partire da un certo anno fatidico, che i più anziani tra noi ricordano benissimo, si è iniziato a parlare solo di diritti.

Certamente quando in passato si rivendicò il diritto al divorzio o allo statuto dei lavoratori o come più recentemente alla parità di genere o ad un fine vita dignitoso, queste furono e sono questioni fondamentali in una società evoluta. Se invece si tira in ballo il diritto a “vestirsi come ci pare e piace”, beh allora non si comprende che esiste soprattutto il dovere di presentarsi adeguatamente nei luoghi che lo richiedono: come appunto le scuole.

Allora bravi quei dirigenti scolastici che indicano con fermezza agli studenti (e alle famiglie) le regole di comportamento e il dress code; e quindi fanno al meglio il loro lavoro, che è quello di educare i giovani e aiutarli a diventare cittadini responsabili. In due parole: educazione civica.

Roberto Riviello

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