Quando provo a contattarlo non può rispondere. Sta suonando. Lo fa da quando era piccolo e non ha mai smesso, con la stessa passione di sempre. Il giorno dopo sono più fortunato. Domenico Petrosino, in arte “Dome la Muerte“, chitarrista, cantautore e disc jockey pisano, in questa intervista ci racconta un po’ di sé. Dagli inizi, con la tromba, ai concerti di ieri e di oggi.

Ci può raccontare dov’era e quale musica stava facendo l’altra sera?
“Ero a suonare Livorno, in un duo con Marina Mulopulos. Abbiamo partecipato ad una bella serata, davanti al mercato del pesce. In questo periodo sto lavorando a diversi progetti…”.

Come nasce il nome “Dome La Muerte”?
“Mi hanno sempre preso in giro quando ero ragazzino. Ero già alto come ora e molto magro, ‘secco rifinito’, come si dice da noi, mi chiamavano ‘lampione’, ‘agonia’ e in altri modi poco simpatici. Quando iniziai a suonare con una band decisi di usare questo soprannome un po’ come ‘riscatto’ per tutte quelle prese in giro subite da piccolo, ma anche per fare un po’ di autoironia”.

Come si è avvicinato alla musica?
Andavo a imparare dal maestro della banda di Navacchio, era un veneto che di cognome faceva Carlin. Ricordo che per alcuni problemi rimasi ingessato un anno circa e per questo, non potendo gonfiare il torace, iniziai con la chitarra. Me l’aveva regalata lo zio Carmine per la prima comunione. Da lì non ho mai smesso.

Su alcuni siti che parlano di lei si legge “uno dei maggiori rappresentanti del movimento punk hardcore italiani degli anni 80”. Come spiegherebbe questa categoria a un giovane di oggi?
“Quel genere musicale era anche un movimento culturale giovanile che si diffuse in tutto il mondo quando la musica anni ’70 era considerata un po’ obsoleta. I cantanti erano considerati un po’ lontani dalla gente, il punk hardcore è stato utile per avvicinare i propri idoli. Potevi parlare e bere con loro dopo il concerto, aspettarli fuori dal camerino e conoscerli senza problemi. Fu un movimento importante quello italiano, non scimmiottava altri movimenti simili che arrivavano da Londra o dagli Stati Uniti. Noi provavamo nel pollaio di mia mamma, nella campagna di Navacchio. Quando iniziammo a sentire i dischi prodotti all’estero, ci rendemmo conto che la musica non era molto diversa dalla nostra. Mentre molti generi, come il beat e il rock, li avevamo importati, il punk hardcore italiano è nato in contemporanea con quello di altri paesi. Con i Ccm (Cheetah Chrome Motherfuckers) ho suonato per alcuni anni, anche in giro per l’Europa, poi sono entrato nel gruppo dei Not Moving”.

Oggi che musica suona?
“Le radici sono quelle anni Ottanta, dal rock ‘n roll al punk. Io sono sempre stato appassionato di musica strumentale e ho lavorato pure con le colonne sonore. La passione che nutro per la musica per immagini mi ha spinto anche a realizzare uno show di questo tipo, oltre ad alcuni spettacoli teatrali di vario tipo”.

Ricorda le sue prime volte sul palco?
“Forse la prima volta in assoluto fu in occasione di un concorso per voci nuove organizzato a Sant’Anna di Cascina. Avrò avuto 12 anni, indossavo una camicia beat con i cachemire disegnati, i pantaloni a campana e avevo un medaglione. Mi esibii con “Questo folle sentimento” della Formula 3”.

Come andò?
“Bene. Vinsi una medaglia, ma non la coppa”.

Da ragazzino che musica ascoltava?

“Il beat andava molto in tv. Tra i miei preferiti i Nomadi, Equipe 84, i Rocks. Si seguiva il Cantagiro, Sanremo… la scelta non era molta. Poi crescendo ho cominciato a sentire Neil Young, Bob Dylan. Il mio babbo quando fui promosso in prima superiore mi comprò una chitarra elettrica e da lì sono venute le mie prime band rock. Il mio idolo (che poi è rimasto ancora oggi) era Jimi Hendrix”.

Nella sua carriera ha fatto moltissime esperienze. Quale ricorda ancora oggi con più piacere?
“Senza dubbio aver avuto la possibilità di essere nel posto giusto al momento giusto, condividendo il palco, per esempio, con i Clash, Nick Cave e Iggy Pop. Ho aperto i loro concerti e anche i tour, esperienze per me indimenticabili”.

Foto di Vincent Moro

Come nasce una canzone? Qual è il suo segreto?
“Essendo un chitarrista (anche cantante, ma meno), parto prima dalla musica. Può capitare che mi venga un riff (frase musicale, ndr) e da lì costruisco un ritornello. A volte però può accadere il contrario, si parte da una frase, un argomento. Insomma, non c’è una regola fissa. Come artista mi sono sempre sentito la responsabilità di sposare delle cause sociali. Per anni ho fatto parte attiva di un’associazione che si occupava di indios e nativi americani, abbiamo raccolto firme per loro e portato artisti a esibirsi in Italia, per aiutarli e far conoscere la loro cultura”.

Qualcosa di personale. Che bimbo era Domenico?
Mia mamma mi ha sempre detto che ero un po’ agitato. In casa rompevo molti oggetti, ma sono cose che capitano. A scuola qualche disastro l’ho combinato, ma non sono mai stato bocciato né rimandato a settembre. Prediligevo le materie umanistiche, divoravo i libri, meno la matematica”.

Figlio unico?
“No, ho una sorella, Maria Rosaria, che ha sei anni meno di me. Quando ero piccolo desideravo tanto avere un fratello o una sorella…”

Ha fatto qualche sport?
“Mi piaceva correre, ho fatto i 100 metri e altre corse ai Giochi della gioventù. Poi, dopo i 20 anni, mi sono dedicato per un paio di anni alle arti marziali”.

Che studi ha fatto?
La scuola per odontotecnici a Livorno, poi la scuola di abilitazione professionale. Per quattro anni ho fatto anche il supplente di laboratorio, sempre nella stessa scuola.

Ricorda la prima volta che ha detto “voglio fare il musicista”?
“Sinceramente no. Ho cominciato con la tromba, verso i 10-11 anni. La musica per me era un’urgenza, una cosa che devi fare per forza, un fuoco che senti dentro”.

Nel 2016 è uscito un libro che parla anche di lei, “No more pain. Viaggio nell’anima”, di Antonio Cecchi. Qual è la cosa che le è piaciuta di più?
“Antonio era il bassista del gruppo di cui facevo parte anche io. Ha fatto la storia della band, con tante foto e alcuni capitoli anche su di me. Sicuramente leggere questo libro è stato un po’ come fare il rewind dentro la testa di tante cose che mi ero dimenticato. Poi, visto che io uscii dalla band, col libro ho avuto modo di conoscere anche tante cose successive al mio distacco”.

Come andarono le cose? Rimaneste in buoni rapporti?
“Andavamo perfettamente d’accordo a livello umano. Decisi di andarmene perché ritenevo che il movimento stesse finendo… eravamo alla metà degli anni Ottanta e desideravo fare cose diverse. Nonostante la mia decisione di chiudere quell’esperienza insegnai i brani al nuovo chitarrista. Non lasciai il gruppo in difficoltà”.

Tornasse indietro, se si potesse, rifarebbe tutto? Oppure, che so, suonerebbe la batteria?
(Risata). “Certi strumenti, tipo la fisarmonica, devo dire che mi emozionano molto. Ma se me la cavo con le tastiere, non riesco però a gestire come si deve l’aria. Sono contento di quello che ho fatto, anche delle scelte difficili, tipo l’aver rifiutato alcuni contratti… pagandone poi le conseguenze”.

Perché lo fece?
“Ti imponevano tutto, dalla barba ai capelli che dovevi tenere, ai vestiti, ovviamente anche i pezzi da scrivere e suonare. Investono soldi su di te, ti permettono di vivere solo della tua passione, ma in cambio decidono tutto. Ho preferito restare libero. Ovviamente pagando anche un costo molto alto”.

Che ha significato cosa?
“Dovermi arrangiare facendo ogni tipo di lavoro. Panettiere, imbianchino, corriere, manovale. Ho avuto periodi di miseria, però mi sento tranquillo quando mi guardo allo specchio”.

Come molti altri artisti ha vissuto momenti di difficoltà con la pandemia, non potendo più lavorare. Lei non ha avuto paura a chiedere aiuto e oggi le fa piacere ringraziare chi le ha teso la mano. Una cosa che le fa onore… le va di parlarne?
“Mi hanno aiutato tante persone, anche nel giro dei musicisti, ma non solo. C’è stata tanta solidarietà nei miei confronti. I primi sono stati quelli della Caritas di Casciavola, con Franco Parri che mi chiamò e iniziò ad aiutarmi concretamente. Per questo mi sembrava doveroso dedicare un concerto (4 agosto, ore 21.30) come segno di  riconoscenza. Per dire grazie a loro ma anche a tutti quelli che, con il volontariato, aiutano ogni giorno chi ha bisogno”.

Progetti futuri?
“Sto finendo un disco strumentale con una band (Dome la Muerte E.X.P.) che suona il genere Spaghetti Western, poi un disco con Marina Mulopulos”.

Cosa si sentirebbe di consigliare-suggerire a un ragazzino che, oggi, volesse dedicare la sua vita alla musica?
“Gli direi che è giusto avere radici e punti di riferimento ma poi devi andare sempre per la tua strada. In più mi sentirei di consigliargli di usare la propria arte anche per scopi sociali. In un periodo come questo, con la pandemia, la guerra e i cambiamenti climatici, credo sia fondamentale trovare dei punti di condivisione anche fra persone di idee e fedi diverse”.

E se questo ragazzino le dicesse che vuole provare a entrare in un reality, tipo X Factor?
“Ogni generazione ha la propria storia e il proprio back ground. Io gli posso dare dei consigli sulla dignità e identità di un artista, ma non sulla strada da seguire. Oggi molte cose sono diverse da un tempo. Prima veniva la cantina e ore e ore di prove, ora molto si basa sull’immagine, gli uffici stampa. Certe band decidono prima come vestirsi e poi come suonare. Alla fine anche un reality può essere una strada utile da percorrere, una scorciatoia. Certo, da solo non basta”.

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