Paolo Lazzari

Il 27 ottobre 1999 non può essere un giorno come un altro. Semplicemente, non deve. Sì, lo so. Veniamo da tre autentiche disfatte in campionato. Presi a mazzate dalla Roma, dal Parma e addirittura dal Piacenza. E che dire del girone? Una débacle al Camp Nou capita a tutti, per carità. Fare 0-0 contro quegli scappati di casa delll’Aik Solna un po’ meno: è stata una tale esperienza! Anche se a Firenze li abbiamo asfaltati. Ad ogni modo, impossibile biasimare chi ripone scarsissime speranze in un nostro successo.

Vittorio ha investito tanti soldi e non è soddisfatto. I tifosi sono scontenti. La squadra è frustrata. Servirebbe un miracolo, ma credo che non succederà un bel niente, nemmeno se tutti i miei parenti si mettono a intonare salmi all’unisono, giù a Reconquista. Ma avete presente dove siamo stasera? No dico, l’avete letta la distinta dell’Arsenal?

Calpestiamo l’erba umida di Wembley, il tempio del calcio, e intorno a me vedo facce che mi sembrano tese, ma spero sia solo il fatto che siamo tutti concentrati. Anche il Trap si agita nervosamente vicino al gruppo: distribuisce istruzioni, passa consigli, cose come raddoppiate sempre su Overmars. Beve a intermittenza da una borraccia e si inumidisce la fronte, anche se non fa per nulla caldo da queste parti. Anche il mister sa che questa è la partita della vita. Che stasera ci giochiamo tutto.

Un vento sferzante ci lavora ai fianchi mentre ci riscaldiamo. Incrocio lo sguardo con quello di David Seaman, dall’altro lato del campo. Provo a immaginare tutti i modi in cui posso trafiggerlo, ma so che è un monumento. E che, prima di lui, devo fare i conti con la difesa dei Gunners. Gente come Dixon, Keown e, soprattutto, Tony Adams: no, so già che non mi renderanno la vita facile.

Quelli sono forti ovunque: hanno Viera a giganteggiare in mezzo al campo, Bergkamp sempre pronto ad accendere la luce, Kanu capace di punirti in qualsiasi momento. E vogliamo parlare di Ljungberg, Henry e Suker in panchina?

Noi ci siamo abbottonati in uno stretto 4-4-1-1: Chiesa in appoggio a me – che rimarrò isolato per larghissimi tratti, ma ancora non posso saperlo – Rui qualche passo indietro e un centrocampo tutto muscoli e polmoni, con Di Livio, Cois e Rossitto. La nostra difesa sembra il reparto più pronto per una sfida come questa: leggo le espressioni scolpite sui volti di Toldo, Repka e Firicano e capisco che stanno progettando una grande partita.

Ma non mi faccio troppe illusioni: conosco il mio ruolo. So già cosa tutti quanti si aspettano da me. Mi mette pressione, ma mi carica anche. Poi l’arbitro fischia l’inizio e comincia a girarci la testa. Overmars sbuca da ogni pertugio. Quell’olandese con il dieci sulle spalle ci nasconde il pallone. Io mi sbraccio in cerca di rifornimenti, ma il copione è chiaro: in dieci dietro la linea della palla, con loro che ci fanno dannare.

Il fatto di non vederla mai mi manda in bestia e dopo pochi minuti rimedio un giallo per un’entrataccia su Dixon: lo so, non è da me. Ma come si dice da queste parti? I’m only human. Soy solo un humano. Eppure so che stasera, proprio stasera, devo andare oltre i miei limiti. Che una città intera, la dirigenza, i miei compagni, fanno affidamento su di me.

Ad un certo punto riusciamo a respirare e Di Livio piazza un buon cross dalla destra, ma Chiesa manca l’impatto di testa di un niente. Poi riattacca il solito film: arrembaggio Arsenal, fortezza viola che vacilla. Viera arriva in ritardo su invito di Overmars. I tiri di Bergkamp e Kanu sibilano a mezzo metro dal palo. Overmars passa in mezzo ai nostri difensori come una lama nel burro.

Cerco conforto negli occhi di Rui Costa, ma è talmente lontano da me che quasi devo immaginarmelo. Così non va. Non posso fare la differenza se non mi arriva mezzo pallone giocabile. Wenger l’ha studiata bene. Loro sembrano più tecnici e più tonici. A fine primo tempo la vedo malissimo.

Uno si aspetterebbe che qualcosa cambi nella ripresa, ma continuiamo ad essere non pervenuti. Toldo si deve inventare parate clamorose. Pierini, Repka e Firicano sfoderano la prestazione della vita. Ma in mezzo ci rubano l’ossigeno, venendo a prendere Rui e sporcando tutte le linee di passaggio. Cerco di venire incontro, di fare sponda, ma quei maledetti mastini mi stanno attaccati alle caviglie e si aggiustano con qualche colpo proibito.

Dolorante e affranto, non so spiegarmi come facciamo ad essere ancora sullo 0-0 a un quarto d’ora dalla fine. Bergkamp intanto ha quasi colpito un palo e Toldo ha piazzato un altro miracolo sul colpo di testa a botta sicura di Winterburn. Danziamo intorno a una pioggia di meteoriti, schivandoli a caso.

Poi la vedo partire da lontano, quell’azione. Firicano sradica con prepotenza un pallone dai piedi di quel damerino di Bergkamp. La passa a Chiesa che appoggia ad Heinrich. E lui, insolitamente combattivo, parte in percussione centrale. Nessuno riesce a fermarlo fino alla trequarti e lì capisco che il momento è arrivato. Mi allargo sulla destra e invoco il pallone. Mi arriva. Entro in area. Ho davanti quella scheggia di Winterburn. È una frazione di secondo. Lo brucio sullo scatto, allungandomi. Poi esplodo un destro, con tutta la forza che ho. La palla viaggia verso l’incrocio opposto a dove si trova Seaman, sospinta da tutte le preghiere di Reconquista. Dalla fede incrollabile di una muraglia di anime viola.

L’immagine che mi resta dentro, subito dopo è quella del portiere con le mani sui fianchi. La sfera sfrigola ancora in fondo alla rete. Wembley ammutolito. Trapattoni che quasi non ci crede. Noi neppure. I giocatori dell’Arsenal ancora meno. Nel finale Toldo nega un gol già fatto a Kanu.

La vinciamo così: all’italiana, catenaccio e contropiede. Ancora non possiamo saperlo, ma saremo l’ultima squadra italiana a trionfare qua. L’arbitro fischia la fine e abbraccio tutti quanti. Abbiamo riscritto una storia già pronta per i tabloid. Abbiamo cambiato le regole. Abbiamo vinto da squadra. Perché, a volte, si tratta solo di avere il coraggio di prendere il tuo destino proprio dalle mani del destino.

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