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Lo stato di salute dell’arte e dei musei in Italia. Intervista al professor Maurizio Vanni

- Cultura
10 Ottobre 2023

Dall’ateneo pisano dove insegna Museologia e quello di Roma dove invece si occupa di Marketing non convenzionale, Maurizio Vanni vanta un curriculum che già da solo è un viaggio nel mondo, dalla Russia all’Argentina: critico e storico dell’arte, attualmente lavora per il Ministero della Cultura – Soprintendenza Archeologia, Belle arti e Paesaggio per le province di Lucca e Massa Carrara (Sostenibilità, Valorizzazione e Gestione dei Beni Culturali e dei Musei). Autore di diversi manuali di museologia, l’ultimo dei quali uscito nel 2022 per CELID dal titolo “Biomuseologia. I musei e la cultura della sostenibilità”, porta con sé nei seminari e nelle conferenze cui partecipa professionalità, entusiasmo e la convinzione che l’arte porti ad una crescita concreta, non solo culturale ma soprattutto umana. A lui chiediamo un punto di vista autorevole sulla situazione dell’arte contemporanea e sui musei, su come essi facciano fronte alle sfide che si trovano ad davanti.

Il 7 ottobre è stata la giornata del contemporaneo. Cosa ci può dire sulle condizioni dell’arte contemporanea italiana anche (ma non solo) in relazione a quella internazionale? La creatività italiana riesce ad affermarsi in patria e fuori? Ritiene che i nostri musei soffrano di esterofilia e, se sì, per quali ragioni?
“Credo sia importante partire da una riflessione: gli artisti italiani più importanti dal secondo dopoguerra non sono ancora celebrati nel mondo come meriterebbero. Recentemente ho visitato molti musei americani di arte moderna e contemporanea a Los Angeles, Washington e New York e non ho trovato molte opere esposte in permanenza di Burri, Fontana, Manzoni, Castellani e Bonalumi (solo per citarne alcuni). Di certo molti di loro hanno esposto in questi musei, ma ancora non ne occupano in permanenza le pareti. Lo stesso discorso potremmo farlo per gli ali artisti legati all’Arte povera e alla Transavanguardia: grandi mostre temporanee quasi ovunque, ma troppo poche acquisizioni dalle grandi collezioni dei musei più rilevanti. I grandi musei asiatici seguono, in linea generale, le sollecitazioni dei grandi musei americani: molti curatori internazionali arrivano proprio dai board di quei musei. Il nostro ministero della Cultura in questi ultimi due decenni non ha investito molto sugli artisti emergenti italiani, non ha favorito residenze d’artista in musei di altri paesi, non ha promosso la giovane genialità italiana con progetti pluriennali di internazionalizzazione (come ad esempio ha fatto la Corea del Sud per gli artisti di ogni comparto). Ed anche i nostri curatori non si sono “battuti” come avrebbero potuto o dovuto per lanciare giovani artisti. I Padiglioni italiani delle ultime edizioni della Biennale di Venezia, se parliamo di presenza nazionale, non sono stati proprio memorabili. Il secondo motivo, probabilmente, è stata la mancanza nel nostro paese di un sistema di grandi gallerie, con potere “economico-politico” in grado di imporre i nostri artisti nelle fiere d’arte più importanti al mondo. Perciò, non è un caso se artisti come Francesco Vezzoli, Marzia Migliora, Giovanni Ozzola, Loris Cecchini e Roberto Cuoghi siano riusciti a farcela proprio perché lanciati da tre grandi gallerie italiane riconosciute tra le top del mondo: Giò Marconi Gallery, Galleria Lia Rumma e Galleria Continua. Quindi, se non ha una grande galleria alle spalle, nella maggior parte dei casi, nessun artista può farcela. Una delle poche eccezioni è rappresentata da Maurizio Cattelan, un genio della creatività e della comunicazione, che non ha nulla da invidiare ad artisti come Damien Hirst e Jeff Koons che, però, ha costruito, almeno mediaticamente, la sua fortuna in altri paesi fin da subito.

Poco più di cinquant’anni fa usciva il saggio “Perché non ci sono state grandi artiste?”. Ritiene che questa sia una questione risolta o forse superata?
“Credo che una riflessione generale vada fatta a prescindere dal momento storico in cui stiamo vivendo in cui sembra più importante dichiarare il genere di appartenenza che non il proprio nome. Nella mia carriera non ho mai fatto nessuna distinzione di genere nella scelta curatoriale degli artisti da inserire in un progetto, ma non sarebbe corretto affermare che lo è stato per tutti. Non penso servi riscrivere una storia dell’arte al femminile, ma prendere coscienza che l’artista donna ha faticato di più per trovare un posto al sole, per raggiungere vetrine che avrebbe meritato in minor tempo. Ho curato mostre e pubblicazioni o tenuto conferenze per grandi artiste come Frida Kahlo, Georgia O’Keeffe, Louise Nevelson, Niki de Saint Phalle, Louise Bourgeois e Cindy Shermann. Conosco e ammiro le opere di Rebecca Horn e le performance di Marina Abramovic. Stimo moltissimo il lavoro di tre giovani artisti italiane (chiedo scusa se non ne cito molte altre) come la laziale Barbara Cannizzaro, la calabrese Sofia Uslenghi e la sarda Emilia Cotza. Recentemente, all’Hirshhorn Museum di Washington ho visto una grande retrospettiva su un’artista che adoro: Yayoi Kusama. Voglio credere, ed ho bisogno di crederlo, che adesso le cose siano definitivamente cambiate”.

Il rapporto 2022 sui Musei della Toscana consultabile sul sito della Regione ci indica che solo l’1% del pubblico è interessato ai musei di arte contemporanea. Come interpreta questo dato così negativo?
“In generale, la presenza del pubblico generico nei musei non dipende solo dall’importanza della collezione permanente, ma dal progetto di valorizzazione e gestione della struttura museale. La profilazione dei pubblici e le offerte culturali su misura per ogni segmento, personalizzate sui loro interessi, garantiscono il coinvolgimento e la possibile fidelizzazione. Nulla è casuale. Evidentemente i direttori dei musei di arte visiva moderna e contemporanea hanno lavorato maggiormente su questi principi per rendere le loro strutture realmente inclusive. Naturalmente l’attitudine a scegliere un bravo archeologo come responsabile di un museo archeologico, se parliamo di frequentazione di pubblico, non sempre porta i risultati auspicati: il desiderio di fare lo studioso e la necessità di pubblicare prevalgono sulla necessità di acquisire maggiori competenze manageriali e gestionali”.

Soluzione?
“Affiancare all’archeologo (direttore artistico) una figura complementare per la valorizzazione e la gestione della struttura (direttore responsabile) o creare un team gestionale interdisciplinare. Stesso discorso per i musei di arte contemporanea: il pubblico generico e, in generale, la comunità in cui è ubicata la struttura, se non aiutati attraverso eventi collaterali e iniziative di vario genere sempre più “tailor made”, continueranno a sentirsi inadatti e non a loro agio con opere che, di per sé, non nascono per andare incontro al senso estetico tradizionale delle persone”.

D’altra parte abbiamo visto le difficoltà delle istituzioni museali: il Lu.C.C.A (Lucca Center Of Contemporary Art) che nel 2021 ha chiuso i battenti, in grave difficoltà è il Pecci di Prato; Firenze resiste ma (complice anche la prospettiva elettorale) si evidenziano diverse fragilità nelle istituzioni che si occupano di contemporaneo: cosa va cambiato per dare nuova linfa a questo settore? Quale ingranaggio della catena culturale secondo lei non sta funzionando?
“Il Lu.C.C.A. – Lucca Center of Contemporary Art non ha chiuso perché era in difficoltà, ma per una scelta della proprietà del palazzo che ospitava il museo e degli stakeholder del territorio che contribuivano a sostenerlo economicamente. Dopo 12 anni ho lasciato la direzione del museo dopo aver realizzato 36 mostre di arte moderna, 96 mostre di arte contemporanea internazionale (anche collegata a residenze internazionali d’artista), 9 mostre di grandi fotografi del Novecento, 14 rassegne di videoarte, oltre 500 laboratori didattici per bambini, oltre 400 eventi interdisciplinari tailor made, molte collaborazioni con Università italiane e internazionali, collaborazioni costanti con le Pubbliche Istituzioni della città, molti progetti legati alla Responsabilità Sociale con eventi in co-produzione con le associazioni di volontariato, con le strutture del terzo settore e con proposte di Museoterapia – primi in Italia ad aver proposto il modello canadese. Alla fine del 2021 ho riconsegnato le chiavi del museo a saldo zero, senza un centesimo di debito. Credo che un professionista debba scegliersi il proprio futuro: dopo il Covid, sentivo che il mio futuro doveva intraprendere altre strade. Ciò che è successo dopo non dipende da me, anche se, evidentemente, mi dispiace molto. Il Museo Pecci ha cambiato molti direttori in questi ultimi anni, evidentemente c’è qualcosa che non va a prescindere da chi se ne occupa. Anche se tendo ad abbinare l’insuccesso di un museo alle decisioni del suo direttore, non sempre è così. In Italia ci sono eccellenti direttori artistici, ma non è ancora ben definita la figura di un direttore esperto di valorizzazione e gestione museale. E non è necessario cercarlo in altri paesi: basterebbe valorizzare quelli che ci sono nel nostro e formarne altri attraverso percorsi di studio sempre più internazionali, orizzontali e interdisciplinari. Le mostre da sole, come ho detto, non risolvono i problemi di un museo.

Le Gallerie degli Uffizi incassano riconoscimenti internazionali: a registrarlo è America Art Awards che lo definisce il miglior museo italiano e lo inserisce tra i primi venti a livello mondiale nel 2023. Quali sono secondo lei i principali meriti di Schmidt? 
“Il caso Schmidt è esemplare: uno storico dell’arte tedesco, con esperienze di studio in Italia, con prestigiosi incarichi negli Stati Uniti che rientra nel nostro paese anche con una eccellente formazione nel comparto della valorizzazione e della gestione museale. Si prende tutto il tempo necessario per studiare la collezione, il territorio, la comunità e la tipologia di turismo di Firenze. Dopo, inizia e ideare una serie di iniziative per riportare il museo a tutte le persone con criteri di coinvolgimento e fidelizzazione originali e sorprendenti. Il suo bilancio si giudica da solo con i numeri: difficile fare meglio. Un solo punto debole: la sua figura professionale non è clonabile e di musei come gli Uffizi in Italia non ce ne sono molti”.

Lei si occupa di museologia, ovvero dello studio del museo nelle sue varie funzioni, come quella
conservativa, scientifica, didattica. Qual è lo stato dell’arte dei musei italiani? Riconosce delle eccellenze? 
“Nonostante abbia curato oltre 600 mostre di arte moderna e contemporanea, sono specialista di sostenibilità, valorizzazione e gestione museale. Eccetto la tutela e la conservazione delle opere d’arte che vedono impegnati professionisti di settore, la museologia del presente ruota intorno a questioni che riguardano progetti museologici etici e responsabili, con proposte legate alla crescita sostenibile (sostenibilità economica, sociale, ambientale e olistica) che si concretizzano nelle offerte culturali sempre più esperienziali ed inclusive. Ci sono diversi musei in Italia che sono eccellenze studiate nel mondo: uno su tutti il MUSE – Museo delle Scienze – di Trento che ha raggiunto un equilibrio perfetto tra collezione, gestione e valorizzazione”.

Nei suoi viaggi all’estero ha avuto modo di confrontarsi con realtà diverse: cosa vorrebbe importare nella gestione dei musei?”
“Ho imparato molto nelle mie esperienze professionali in altri paesi: dai musei canadesi francofoni la meticolosità nell’investire sulla didattica e il loro desiderio inclusivo, dai musei argentini la loro predisposizione all’interdisciplinarietà, dai musei brasiliani l’impegno nel credere alla sostenibilità ambientale anche attraverso progetti laboratoriali per trasmettere coscienza ecologica e dai musei coreani un senso di responsabilità sociale unito all’attenzione ai numeri; dai musei americani le strategie di marketing non convenzionale per la fidelizzazione del pubblico generico. Vorrei portare tutto questo nei musei italiani ed evidenziare un pensiero che è sempre presente nei miei manuali di museologia: i musei e la cultura in generale, se gestiti con progetti pluriennali e criteri manageriali, possono creare un grande valore economico con impatti misurabili sui nostri territori. Per quanto riguarda la formazione, in Italia tanti master e corsi di specializzazione, ma anche tanta confusione e altrettanta improvvisazione. Ancora misterioso il perché non esista un corso di laurea in Museologia”.

Ilaria Clara Urciuoli

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