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La mia Befana negli anni Trenta

- Cultura
5 Gennaio 2020

Renato Sacchelli

Quando mossi i primi passi mio padre lavorava sulle cave del Trambiserra, zona montana non molto distante dal centro di Seravezza (Lucca). Usciva presto di casa la mattina, con l’ombrello di cerato aperto, anche col brutto tempo, nella speranza che il cielo si rasserenasse in modo da poter lavorare almeno un quarto di giornata(*), come era solito dire. In questo modo riusciva a guadagnare qualcosa. La situazione si aggravava nei giorni in cui la neve o i forti rovesci d’acqua, accompagnati dalle raffiche di vento, gli impedivano di mettere piede fuori dall’uscio di casa. Quando le giornate di lavoro perse erano troppe, causa maltempo, la “quindicina” era davvero misera. Se siamo sopravvissuti è grazie ai bottegai che vendevano “a credito” i generi alimentari alle famiglie dei cavatori. Segnavano le spese su un grosso registro, e su un libretto aggiornato di volta in volta, tenuto dai clienti.

Nonostante le ristrettezze economiche la Befana è sempre venuta nella mia casa, per far trovare a noi bimbi, ai piedi del letto, piccoli doni e tanti chicchi che rendevano felici sia me che i miei fratelli più piccoli. Ricordo ancora il fucile che sparava un tappetto di sughero e il tamburino di latta, sul quale non smettevo mai di battere le due piccole mazzette di legno.

Il giorno della Befana era festeggiato da tutti i bimbi del Ponticello, che giravano felici lungo le vie del rione con i piccoli regali trovati al loro risveglio. Nel cestino che la Befana lasciava nella nostra casa trovavamo biscotti fatti in casa, nocelline e noci, arance, fichi secchi, piccoli torroncini e tanta altre cose buone; era davvero una Befana generosa che dimostrava, così, il grande amore che nutriva per noi bambini.

Un anno, mentre stavo seduto davanti al camino insieme ai miei genitori, all’improvviso vidi un’arancia che, attaccata ad una cordicella, penzolava in su e giù lungo la cappa. Fu mia mamma che richiamò la mia attenzione su quel frutto, tant’è che io mi alzai di scatto, ma non riuscii a prenderla. Purtroppo scivolai ed andai a battere la testa sulla lamiera di ferro che era stata murata intorno alla base del camino. Finii all’ospedale Campana, dove mi applicarono sulla ferita alcuni punti di sutura. Seppi poi che era stato mio cugino Marcello, più grande di me, a fare di nascosto la parte della Befana. Sì, era stato proprio lui a salire sul tetto facendo penzolare l’arancia lungo la cappa del camino.

Ricordo gli anni della mia infanzia vissuti con gioia e tanta felicità perché sentivo davvero che noi bambini, per i nostri genitori, eravamo – come si dice a Napoli – “piezz’ e core”.

(*) – Il quarto piovoso
Per arrivare all’alba sulla cava i cavatori dovevano camminare a piedi per alcune ore. Quando arrivavano a destinazione e cominciava a piovere ritornavano a casa senza aver potuto lavorare. Per questo motivo la mattina, al momento di incamminarsi per raggiungere il posto di lavoro, se il tempo era piovoso rimanevano a casa. Potevano esserci delle schiarite ma per partire ormai era troppo tardi. Conseguentemente perdevano la giornata di lavoro. Il “quarto piovoso” consisteva in un’indennità che veniva riconosciuta agli operai che, avendo raggiunto la cava, pur rimanendo inoperosi nella capanna a causa degli agenti atmosferici avversi, avevano diritto alla paga di un quarto di giornata. Poiché le ore di lavoro giornaliere che facevano erano 6 e mezzo, compresa la mezzora, per consumare un pasto frugale, quindi in tutto 390 minuti, l’indennità del quarto piovoso corrispondeva ad un’ora e 30 minuti della paga giornaliera.

Renato Sacchelli

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Un fiume unisce la Toscana e rappresenta il modo di vivere forte e intraprendente del suo popolo. L'Arno.it desidera raccontarlo con le sue storie, fatiche, sofferenze, gioie e speranze. Senza dimenticare i molti toscani che vivono lontani, o all'estero, ma hanno sempre nel cuore la loro meravigliosa terra.

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