Renato Sacchelli

Trascorse gli anni della sua giovane vita sulla cava intorno ai blocchi di marmo da squadrare. Aveva i muscoli e le mani di acciaio e la subbia che utilizzava, sotto i tremilacinquecento colpi inferti da lui ogni giorno col mazzolo, sprigionava scintille in continuazione, tant’è vero che la sera il carrello era pieno di scaglie da buttare giù nel ravaneto. Come il padre e i fratelli era andato a lavorare presto sulla cava perché, come scrisse nella poesia ‘Canta cuore’ del 1957, “non studiai abbastanza / i figli degli operai non possono studiare abbastanza…”.

A casa, nelle ore di riposo, inzuppava il pennino nell’inchiostro per esprimere, in modo magistrale, pensieri gioie e dolori. Dalle forti emozioni vissute fin da bambino nella sua povera casa di Malbacco, poi durante gli eventi bellici che insanguinarono anche la Versilia, in cui perse la vita suo fratello, fino alle fatiche sopportate “nell’inferno della cava”, per guadagnare, con dispendio di energie sovrumano, il magro salario necessario per sopravvivere, nascono i suoi versi. Versi che fanno riflettere non solo sulle bellezze della natura, ma anche sulle ingiustizie di una società che, sin dall’antichità, ha sempre reso difficile l’esistenza delle persone povere.

Il suo primo paio di scarpe Lorenzo lo ebbe quando aveva 10 anni. Nella poesia intitolata ‘Scarpe‘ scrive che fu la Befana a portargliele, brutte, chiodate e grossolane./ Sul volto triste dei genitori/ passò il sorriso di un bimbo / che scalava montagne inaccessibili. / Le rigirò tutta la sera, / le tolse, / le mise, / gli contò i chiodi. /Volle posarle persino sul canterale, / per rivederle / prima di addormentarsi. / Si svegliò a mezzanotte. / E quando venne il sole,/ e le povere donne trepidarono nascoste dietro ai vetri/ guardando il proprio figlio, / lui corse fuori e si trovò sull’erba bagnata di rugiada. Allora se le tolse, / le mise a cavalcioni sulle spalle / e camminò cosi, per non sciuparle”.

C’era una grande miseria nelle famiglie dei cavatori negli anni in cui Lorenzo era bambino, mentre le spose erano in preda alla disperazione non sapendo cosa mettere a cuocere nella pentola. Questa sofferenza l’ho vissuta anch’io, perché anche mio padre, in quegli anni, lavorava su una cava del Trambiserra, forse nella stessa dov’era occupato anche il babbo di Lorenzo. Per fortuna a quei tempi i bottegai davano a credito i generi alimentari che i lavoratori pagavano quando riscuotevano la quindicina.

Usciva di casa, il mio babbo, che era ancora buio, e così anche lui vedeva i “rubini, nella notte gelida come fossero stelle stelle…”, come ha scritto Lorenzo nella sua bellissima poesia intitolata ‘I cavatori’. Come tutti i suoi colleghi mio padre calzava gli scarponi chiodati e poi, data un’occhiata al cielo cielo per guardare com’era il tempo, apriva l’uscio e usciva di casa” per raggiungere Malbacco. Poco sopra quel punto attraversava una pericolosa passerella ballerina, fatta coi fili di ferro e pioli sorretti da un lungo cavo metallico, per attraversare il fiume.

Superato quel tratto percorreva irti sentieri tra boschi e ravaneti, saltellando sui sassi attraversava ruscelli e all’alba era già sulla cava, quando suonava la campana che chiamava i fedeli ad assistere alla prima celebrazione della santa messa del Signore. Ricordo quando con mio fratello Sergio gli lucidavamo gli scarponi chiodati con la sciugna (grasso animale, ndr): gareggiavamo a chi riusciva a farle brillare di più. Si provava tanta felicità nel farglieli trovare sempre puliti e lucidi.

Durante il periodo dello sfollamento, anche Tarabella, come me, tutti i giorni andava in giro per i campi a cercare pannocchie di granturco e quant’altro da mangiare. Il 12 agosto 1944, nella piana di Pietrasanta, fu fermato da un tedesco che lo fece passare dopo che gli spiegò che era alla ricerca di cibo. Posando lo sguardo sui monti sopra Valdicastello notò il fumo che si sprigionava dalle case bruciate dai tedeschi a Sant’Anna di Stazzema, dove proprio quella mattina era stata commessa la più spaventosa strage di innocenti in Italia.

Un grande successo riscosse la pellicola cinematografica ‘I cavatori’, diretta da Sirio Giannini, tratta da un racconto di Lorenzo Tarabella, ed anche dal libro intitolato “È troppo presto”, pubblicato postumo per volere dei suoi amici della Pro Loco di Seravezza. Prima di morire Lorenzo stava lavorando alla trasposizione cinematografica di un altro suo racconto, intitolato “La Capra”.

Mi piace ricordare alcuni pensieri espressi dal maestro Narciso Lega nella prefazione al libro di Lorenzo: “La sua vena poetica è pura e vergine, forte e possente come l’ambiente naturale in cui lavora, decisa come la gente che vive la sua stessa grama vita, temprata come l’acciaio di cui si serve per cavare e squadrare il marmo. Questo libro mi è molto piaciuto, in quanto i versi poetici e i racconti di Lorenzo Tarabella, affiorano dalla profondità del suo ‘Io cosciente’. Dalla lettura della sua poesia, scritta nel 1957, intravedo i segni premoritori del suo tragico destino. Lassù sulla cava, col sudore che gli colava copioso dalla fronte e col freddo pungente morte”.

Nella straziante poesia intitolata ‘I loro sogni‘ si intravede una profonda tristezza, unita alla voglia di riassaporare la bellezza e la libertà. Sognano verdi alberi/ e fontane che cantano nella gola riarsa / Nei loro volti è il martirio / E il sole arde / Un sole di mille soli che arde/ riflessi spietati contro bianchi marmi,/ contro i poveri occhi tormentati; / contro spalle lucide sconsolatamente ricurve. E le fontane cantano. E la cava è un inferno./ E le leve scottano, / i martelli diventano grevi,/ e il duro marmo più restìo. / E la volontà si spezza nell’intimo, / lacrime e sudore si confondono/ in un tragico odio che trabocca,/ che uccide la ragione. A che valsero i figli! Oh! Odiano!/ Odiano il giorno che li vide nascere, / odiano i baci della prima notte di matrimonio, / odiano, padri, le madri, / il mondo che li circonda. / Se stessi. / Il sole arde./ Morte! / Oh morire! Ecco il sogno più bello; / la nera, dolce, gelida, silenziosa morte, posta in arrivo l’eterno agognato riposo, / la fresca terra di sempreverdi cipressi./ Il sole arde. Un sole di mille soli che arde./ E la cava è un inferno. / A sera, / quando un sorriso aspetta la parola/ e un bambino che dorme è commozione, / la volontà ritorna: / domani lotterà, / domani è un altro giorno, / e un altro, e un altro”.

Una tragica fine, quella di Lorenzo. Preannunciata nel grido disperato affidato ai suoi versi struggenti. No, Lorenzo, no! Non dovevi lasciarci così.

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Lorenzo Tarabella, il poeta cavatore, era nato a Malbacco, nel comune di Seravezza, il 23 dicembre 1927. Quando perse la casa, fatta saltare in aria dai tedeschi, si era appena trasferito a Seravezza con la sua famiglia. Morì a quarantaquattro anni appena compiuti. Si tolse la vita nel pieno della vigoria fisica e intellettuale, lasciando nel pianto e nello sgomento la sposa, i familiari e tanti amici seravezzini che lo stimavano e gli volevano un mondo di bene.

Renato Sacchelli

 

Foto e video: da “I cavatori”  (1961)

 

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