Guido Martinelli

Il Teatro Verdi di Pisa è dal 1867, data della sua inaugurazione, un baluardo della cultura pisana, e poiché mi occupo, come posso, della cultura nel territorio pisano non potevo non andare a curiosare anche lì, in via Palestro, approfittando della gentilezza e della disponibilità della presidente della Fondazione Teatro Verdi, la dottoressa Patrizia Paoletti Tangheroni. Non ha certo bisogno di presentazioni avendo ricoperto prestigiosi incarichi nazionali e internazionali: docente universitaria di Storia, esperta di cooperazione internazionale per molte agenzie dell’Onu, deputata alla Camera per due legislature, dal 2018 guida la Fondazione del teatro verdiano pisano. Inizio la chiacchierata chiedendole com’è iniziata questa sua avventura teatrale.

“Pensavo che fosse arrivato il momento della mia vita in cui potevo dedicarmi solo al volontariato – racconta – quando è stato eletto l’attuale sindaco Michele Conti che mi ha chiamato a presiedere il Teatro Verdi. Ho accettato con molto entusiasmo questa sfida, per me una novità, e adesso vivo questo ruolo con passione. Sono al mio secondo mandato e ho trovato che la città risponde molto bene alle nostre proposte e quindi sono abbastanza soddisfatta. Nel frattempo ho imparato a muovermi in questo mondo, conosco adesso tutte le normative e penso di essere in grado di dare il mio  piccolo contributo a questo mondo”.

Come ha impostato la sua presidenza ed è soddisfatta dei risultati raggiunti?
“Appena arrivata l’ho impostata cercando di capire come fosse questo mondo, come facevo quando andavo in un paese nuovo durante le mie esperienze all’Onu. In quei frangenti la prima cosa che facevo era cercar di comprendere il contesto nuovo nel quale mi trovavo. Abbiamo immediatamente trovato che il teatro, contrariamente a quello che ci si aspettava, aveva un deficit notevolissimo, e prima di filosofare bisognava cercare di rimettere a posto questa situazione. Quindi la prima cosa da fare è stata quella di contenere le spese, cosa non facile perché contemporaneamente la città si aspettava una bella stagione di prosa, lirica e danza. Quindi, cercando di limitare il turnover, non sostituendo il personale che andava in pensione, siamo riusciti a rimettere la barca in pari. A quel punto ci siamo potuti avvicinare alla qualità delle proposte che la città pretendeva”.

Come vi siete mossi?
“Abbiamo indetto dei veri e propri concorsi con delle  commissioni assolutamente ineccepibili e in questo modo abbiamo trovato prima un direttore artistico, Enrico Stinchelli, che ci ha portato una ventata di freschezza. Quando è scaduto il suo mandato abbiamo bandito un altro concorso vinto da Cristian Carrara, attualmente in carica. Nel frattempo abbiamo modificato lo statuto ripristinando la figura, esistente prima ma che era venuta meno, del direttore generale. È importantissimo un direttore generale anche perché è colui che sovrintende a tutti i problemi non solo artistici. Questo ruolo è ricoperto da Michele Galli, selezionato su 78 aspiranti. Si è rivelato molto bravo perché ha immediatamente ricreato un importante tessuto di fiducia nel personale. Quindi, adesso i conti sono in ordine, siamo dotati di direttori entusiasti e competenti, e siamo in grado di poter dare risposte di qualità alla città”.

Le persone che ha citato sono i suoi principali collaboratori?
“Assolutamente sì, insieme al consiglio di amministrazione”.

Siccome il teatro è un po’ come un’orchestra, ci potrebbe spiegare le varie mansioni all’interno dell’organizzazione, cioè chi fa cosa?
“C’è un settore che si occupa della produzione e quindi di tutto quello che è lo spettacolo: gli elettricisti, i tecnici, la realizzazione degli allestimenti eccetera. C’è l’amministrazione, che tiene tutti i conti di ogni spettacolo perché si tratta di gestire i pochi soldi presenti e trovare sempre le priorità corrette per mettere sul palco dei buoni spettacoli. Il settore palcoscenico con la sua organizzazione, che prevede persone a tempo indeterminato, ma anche altre che, di volta in volta, vengono assunte appositamente per gli spettacoli. Il capofila di questo settore è proprio il direttore artistico, perché è lui che sceglierà, per esempio, il regista. Vanno tenuti anche presenti tutti i rapporti con i nostri donatori, soprattutto col Ministero della Cultura, perché vanno preparate e presentate le domande proprio al Ministero, per la programmazione triennale. Al vertice di tutto questo c’è il direttore generale, in quanto la sottoscritta e il consiglio di amministrazione siamo un organo politico, mentre l’organo tecnico, operativo, è guidato dal direttore generale”.

Cosa ci può dire della stagione di lirica e di prosa di quest’anno?
“Nella stagione lirica abbiamo delle nostre produzioni o coproduzioni. Le nostre produzioni sono composte da voci giovani perché noi siamo un teatro di tradizione, quindi nella catalogazione siamo sotto gli enti lirici. Per darle un ordine di grandezza il Ministero elargisce 15 milioni a un ente lirico mentre a noi 600.000 euro. Le nostre voci sono quindi giovani perché costano meno, ma com’è stato nel caso della “Norma”, messa in scena poche settimane fa, ci possono anche essere delle sorprese eccezionali perché abbiamo avuto una “Norma” ventiquattrenne che diventerà una grande cantante. Sta al direttore artistico capace trovare grandi qualità nei giovani inesperti, e noi abbiamo la fortuna di avere un direttore artistico che è anche un compositore, quindi è inserito lui stesso dentro il sistema ed è in grado di fornire queste garanzie”.

Che vuol dire “coprodurre”?”
“Significa dividersi le spese: di regia, dei costumi e delle scene. Vuol dire avere una migliore orchestra e dei migliori cantanti per arrivare ad avere più qualità. Quando sono arrivata si realizzavano coproduzioni solo con i teatri viciniori di Livorno e Lucca, verso cui abbiamo un grandissimo rispetto e con cui collaboriamo, sperando di ripristinare anche dei progetti comuni, ma ora abbiamo allargato l’orizzonte. Infatti coproduciamo anche con altri enti lirici extraregionali della Lombardia, come Cremona. Addirittura ne faremo uno con un ente lirico come Cagliari, per cui possiamo sostenere di aver compiuto un piccolo salto in avanti. Le faccio un esempio, quando viene presentata una domanda ministeriale alla fine viene data una valutazione al progetto con un punteggio, e fino a poco fa il teatro di Pisa non era mai arrivato oltre 16/17,5. Ora noi abbiamo avuto 21,5, un punteggio che consente di ottenere altri finanziamenti. Per un teatro di tradizione come il nostro è un risultato decisamente soddisfacente”.

Quindi, gli obiettivi che vi proponevate  di realizzare li avete già un po’ tra le mani?
“A dire la verità noi abbiamo un sogno nel cassetto: fare di Pisa un polo formativo dello spettacolo. Questa è una grande ambizione che io ho avuto da sempre, e il sindaco mi sta sostenendo in questo sogno che potrebbe essere molto importante per la città. Intanto, con il direttore generale abbiamo cominciato a seguire questa strada. Dopo tantissimi anni, finalmente, siamo tornati a riproporre nelle scuole la formazione alla lirica ed ora abbiamo 700 iscritti tra bambini e ragazzi. Dapprima  facciamo formazione dei formatori, lavoriamo insieme agli insegnanti, e portiamo nelle scuole l’amore per la lirica spiegando la trama delle opere, come nasce uno spettacolo, e alla fine dell’anno scolastico le classi dei bambini stessi metteranno in scena un piccolo spettacolo che permetterà loro di avvicinarsi a questo mondo che altrimenti resterebbe estraneo. Continuiamo, però, nella prosa, ad avere un tipo di formazione che è una tradizione, ovvero quella di “Fare teatro”. Ci sono generazioni intere che in questi decenni hanno fruito di questi nostri meravigliosi docenti che sono bravissimi e vi si dedicano come pochi riportando soddisfazioni enormi. Oltre a “Fare Teatro” c’è una iniziativa annuale che si chiama “Prima del Teatro” che si svolgeva da tempo a San Miniato e che, da quest’anno, ha luogo a Pisa, a cui partecipano allievi provenienti da tutte le scuole di formazione di arte drammatica italiane per il mese e mezzo di durata dell’esperienza. Inoltre, dall’anno scorso, si è confermata la convenzione con la prestigiosa accademia “Silvio D’Amico” di Roma. Credo, insomma, che stiamo affermando una nostra grande dignità anche facendo delle scelte difficili come, per esempio, quest’anno per la danza. Invece di mettere in scena otto spettacoletti ne abbiamo programmato uno solo ma di altissimo livello, per cui avremo una “Coppélia” di Amedeo Amodio tratta da un racconto di Hoffmann che sarà rappresentata il prossimo 18 ed è già sold-out”.

Allargando il discorso in ambito nazionale, come trova la situazione del teatro in Italia?
“Sperando che le cose, ora, cambino, noto che si privilegiano spettacoli di enti lirici e teatri grandi a discapito di altri come il nostro, che non è piccolo ma inferiore rispetto ad altri. Quindi, si dovrebbe fare una ripartizione un pochino più equilibrata dei finanziamenti e soprattutto rivedere certe normative. Le faccio un esempio: come teatro di tradizione il ministero ci riconosce solo la lirica, la concertistica e la danza, ma non la prosa. Quindi, per sostenere la prosa noi dobbiamo, mi passi il termine, “arrabattarci” per trovare i  finanziamenti. Insomma, dobbiamo cercare di trovare il modo di far pagare un po’ la prosa dalla lirica. La legge andrebbe un po’ rivista per far arrivare un contributo anche per coloro che attuano una stagione di prosa dignitosa come la nostra. Anche quest’anno sono stati tutti confermati gli abbonamenti degli scorsi anni, a dimostrazione della fedeltà e dell’apprezzamento dei nostri sforzi da parte del nostro pubblico”.

Io sono tra questi, e le confermo la qualità delle vostre proposte…
(Sorride) “Siamo contenti che la prosa riscuota molto successo, ma la programmazione va calibrata perché la nostra è una città che ha molti pubblici che vanno tutti accontentati. Ci sono i palati fini degli intellettuali, dei docenti, che vanno soddisfatti non dico con l’avanguardia, perché forse non sarebbe capita, ma con qualcosa di moderno. Poi ci sono gli studenti che studiano i classici e hanno diritto di vedere magari un Goldoni, uno Shakespeare, per cui due o tre classici vanno sempre programmati. Poi ci sono le novità che vanno prese in considerazione, come pure spettacoli leggeri ma non superficiali. Quest’anno siamo partiti con Virginia Raffaele, che ha realizzato una performance che potremmo definire leggera ma è risultata straordinaria. Faremo sicuramente anche degli errori ma la nostra priorità è cercare di accontentare un po’ tutti questi pubblici così polimorfi”.

Ora ci parli un poco dei suoi gusti personali. Predilige di più la lirica, la prosa o entrambe?
“Entrambe. Apprezzo molto lo spettacolo dal vivo, quella situazione magica, irripetibile, in cui il pubblico s’incontra con l’artista, così diversa da quella virtuale che stiamo vivendo in questi tempi. Per i miei gusti sono una fanatica, proprio vergognosamente fanatica, di Mozart, che apprezzo sia per la sua vita artistica che umana. Per quanto concerne, invece, la prosa, mi piacciono sia i classici sia le produzioni moderne che a volte sono interessantissime. Prima del Covid abbiamo visto qui una stupenda opera di  Di Giovanni. Apprezzo anche lo spettacolo leggero non superficiale ma aborro la volgarità che dovrebbe essere bandita dallo spettacolo”.

Un attore che le è rimasto impresso?
“Mi è  piaciuto moltissimo Alessandro Preziosi, che ritenevo più un interprete da fiction che teatrale, ma sul nostro palco si è rivelato, invece, un grande attore. Come pure Massimiliano Gallo che interpretò quell’opera di Di Giovanni cui accennavo prima, mostrando di essere un attore completo. Ecco, diciamo che mi piacciono gli attori a 360 gradi, capaci di passare dal drammatico al leggero”.

E del passato?”
“Senz’altro Vittorio Gassmann che è stato un grandissimo proprio anche perché, come dicevo prima, era completo, poliedrico, riuscendo a passare dai classici in cui recitava anche dei monologhi capaci di tenere il teatro col fiato sospeso,  alle commedie divertenti, un grandissimo. Tra i registi senz’altro Franco Zeffirelli“.

La domanda finale è il mio personale tormentone: il teatro salverà il mondo?”
“Potrebbe, perché il teatro vuol dire bellezza, arte, sinergia tra il pubblico e gli attori, quindi apertura. Potrebbe salvarlo, il mondo, se si andasse un pochino di più al teatro, perché si comincerebbe a vedere le cose del mondo diversamente, e magari ci si staccherebbe un po’ da tutta questa tecnologia che ci massacra”.

Ringrazio la gentilissima presidente, felice di avere da lei la conferma del buono stato di salute del teatro della mia città perché, come asseriva proprio il grande Vittorio Gassmann da lei citato, “il teatro è una zona franca della vita, lì si è immortali”.

Guido Martinelli

 

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