Roberto Riviello

Per Pupi Avati, che parla attraverso Castellitto/Boccaccio, Dante è colui che conosceva il nome di tutte le stelle; oltre ad essere il sommo Poeta. E che le stelle avessero un’importanza e un significato assai speciali per lui, è testimoniato dall’ultimo verso di ciascuna Cantica della Divina Commedia: “E quindi uscimmo a riveder le stelle” (Inferno); “puro e disposto a salire a le stelle” (Purgatorio); “l’amor che move il sole e l’altre stelle” (Paradiso).

Questa è la chiave di lettura del poema dantesco ma anche di tutta la sua esistenza, come di una ricerca continua e del tentativo di innalzarsi verso l’origine del Creato, che il regista emiliano sviluppa nel suo ultimo film intitolato appunto “Dante”: certamente la sua opera più ambiziosa, che si conclude con il vecchio Poeta, esule a Ravenna, immerso nella contemplazione del meraviglioso mosaico absidale della Basilica di Sant’Apollinare in classe, nella cui parte superiore è un cielo stellato con al centro una croce gemmata e il volto di Cristo all’incrocio dei suoi bracci; e sopra la croce si vede la mano di Dio che esce dalle nuvole.

La storia di Dante viene raccontata attraverso lunghi flash-back durante il viaggio che il suo più autorevole commentatore, Giovanni Boccaccio, compie nel 1350 (sono passati solo un paio di anni dalla terribile epidemia di peste i cui segni sono ancora visibili tra la popolazione) per incarico dei Capitani di Or San Michele: dovrà portare dieci fiorini d’oro in segno di pentimento della città di Firenze e risarcimento simbolico a suor Beatrice, l’unica figlia del Poeta ancora in vita, che è suora nel monastero ravennate di Santo Stefano degli Ulivi.

E durante il viaggio, Boccaccio, interpretato da un bravissimo Sergio Castellitto, fa tappe in alcuni dei luoghi dove Dante si fermò in cerca di protezione durante il suo esilio, come il castello dei conti Guidi a Poppi, nell’aretino. Così vengono narrati gli episodi salienti della sua vita, attraverso i racconti e le testimonianze di chi, molti anni prima, lo aveva visto o conosciuto. Vediamo il Dante bambino, nel suo primo incontro con Beatrice Portinari; e poi il giovane poeta che scrive la Vita Nova con i versi che lo resero subito celebre a Firenze (“Tanto gentile e tanto onesta pare la donna mia, quand’ella altrui saluta, ch’ogne lingua deven, tremando, muta e li occhi no l’ardiscon di guardare”) e gli procurarono l’amicizia fraterna del nobile Guido Cavalcanti, altro grande letterato del Duecento; Dante che, insieme ai guelfi fiorentini, combatté a Campaldino contro i ghibellini di Arezzo; la morte di Beatrice e la sua disperazione; il matrimonio con Gemma Donati e la nascita dei figli; la nomina a priore di Firenze; l’ambasceria a Roma da Bonifacio VIII, il papa che tramò per abbattere il potere dei guelfi bianchi di cui Dante era un importante esponente; la presa del potere da parte dei guelfi neri e, di conseguenza, la condanna a morte e l’esilio per il Poeta.

Oltre a Castellitto e ad Alessandro Sperduti che interpreta bene il giovane Dante, tra gli altri attori del film vanno ricordati Enrico Lo Verso, nel ruolo di Donato degli Albanzani, la guida di Boccaccio; Alessandro Haber, molto realistico nelle vesti di un monaco vallombrosiano che considera Dante nemico della Chiesa; Leopoldo Mastelloni, il subdolo VIII; e, last but not least, Gianni Cavina che interpreta il morente Piero Giardino con la sua tipica espressività.

È stata questa l’ultima interpretazione di Gianni Cavina, attore di diversi film di Pupi Avati e di sceneggiati televisivi che lo hanno reso celebre ma non tanto quanto si meritava, recentemente scomparso, e al quale il regista e amico dedica un saluto affettuoso nei titoli di coda.

Roberto Riviello

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