Guido Martinelli

Nella settimana dell’importante e necessario giorno della memoria di quest’anno Rai 3 ha trasmesso la docufiction “Per un nuovo domani”, una  coproduzione tra Rai Fiction e la pisana Alfea cinematografica. La storia è liberamente tratta dal libro “L’Orizzonte chiuso” di Silvia Angelini, Oscar Guido e Paola Lemmi, edito da Maria Pacini Fazzi editore. La sceneggiatura è stata di Mario Cristiani, Cosetta Lagani e Stefano Nannipieri. La regia è stata curata dall’esperto Luca Brignone, mentre questi sono gli interpreti: Neri Marcorè, Leonardo Caneva,  Elena Meoni, Flavia Comi, Marco Pratesi, Luigi Pisani, Paolo Giommarelli, Sofia Graiani, Julia Messina, Giorgia Guerra. L’opera è stata realizzata col patrocinio di Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea (Cdec) di Milano, Comunità ebraica di Pisa, Comune di Castiglione di Garfagnana e Castelnuovo di Garfagnana e Unione Comuni Garfagnana.

La vicenda narrata è quella reale e poco nota di circa 70 ebrei stranieri costretti ad un “internamento libero” a Castelnuovo Garfagnana (il film è stato girato a Castiglione di Garfagnana perché meglio conservato) fra il 1941 e il 1943. Dopo due anni di costrizione, in cui gli ebrei riuscirono a stabilire rapporti di collaborazione e vicinanza con la comunità locale, nonostante fosse loro proibito, la maggior parte di loro fu inviata nei campi di concentramento e dell’intero gruppetto sopravvissero solo sei persone.

Una storia toccante che, a mio avviso, il docufilm ha reso molto bene riuscendo a coinvolgere emotivamente in modi, a tratti, persino commoventi. Devo confessare di esserne rimasto colpito anche perch la mia famiglia proviene da quelle zone e quando, da piccolo, in famiglia, uscivano racconti sulla seconda guerra mondiale, a volte una mia zia tirava fuori alcune frasi sugli ebrei che “erano passati pure di lì”, aggiungendo un semplice e laconico “me li ricordo”, parole che mi restarono impresse.

Al di là dei cenni autobiografici, che lasciano il tempo che trovano, ribadisco che questo tragico fatto è stato rappresentato in modo oggettivamente emozionante grazie a un gran lavoro di équipe, in cui gli sceneggiatori e l’ottima direzione registica sono stati attenti a rispettare fedelmente i dati storici, alternando la felice e realistica narrazione con le testimonianze dei sopravvissuti. Nel valido e affiatato cast di interpreti, capaci di rendere credibile l’intero assetto narrativo, erano presenti diversi attori pisani, quindi non potevo lasciarmi sfuggire l’occasione di andarne a cercare alcuni per scambiare con loro alcune impressioni. La prima che sono riuscito ad incontrare è stata la giovane e talentuosa Flavia Comi, che ho incontrato in un bar di Cascina.

Flavia, come ripeto sempre a tutti come un vinile rotto, si presenti…
“Mi chiamo Flavia Comi, ho 25 anni, sono nata e cresciuta a Pisa, ho studiato recitazione alla “Scuola di Teatro Iolanda Gazzero” (ERT- Emilia Romagna Teatro) diretta prima da Claudio Longhi e poi da Walter Malosti , dove mi sono diplomata a dicembre di due anni fa dopo un corso triennale. In precedenza ho frequentato per sette anni i corsi di “Fare teatro” del Teatro Verdi di Pisa, tenuti da Luca Biagiotti, Franco Farina, Federico Guerri, Cristina Lazzari”.

Com’è nata la sua passione per il teatro?
“Il mio primo contatto con un ambiente artistico è stato con la danza. Ho ballato per quattro anni danze caraibiche ma per motivi familiari ho dovuto abbandonare. Ai tempi del liceo classico un mio compagno frequentava i laboratori di Fare teatro e mi chiese di andare a vedere una lezione. Lì ebbi modo di incontrare per la prima volta Luca Biagiotti, che è stato il mio primo maestro, e fui colpita dal suo approccio professionale e molto serio, improntato al gioco ma sempre volto all’ottima riuscita dello spettacolo. Così la volta successiva decisi di prendere parte alla lezione e non ho più smesso. Ho continuato, infatti, per tutto il liceo, e dopo la maturità ho capito, grazie anche al supporto dei docenti e ai riscontri molto positivi dei miei compagni, che là dove si recitava era il posto in cui dovevo stare”.

È stato il suo primo film?
“Sì, avevo girato in precedenza alcuni corti con amici del settore, ma questa è stata la mia prima esperienza seria e professionale”.

Com’è nata questa sua prima avventura professionistica?
“Tutto è iniziato con un provino a Roma col regista, l’aiuto regista del film, e il collega e amico Marco Pratesi, che poi ha interpretato il ruolo di mio marito”.

Com’era finita lì?
“Per un caso, tramite uno degli sceneggiatori del film Mario Cristiani, padre di Federico, un mio carissimo amico, con cui ho lavorato a stretto contatto per tanti anni al Teatro Verdi. Avevano già realizzato diversi provini per questo che poi è stato il mio ruolo, ma non erano soddisfatti. Così Mario si è ricordato di quando veniva a vedere gli spettacoli del figlio al Verdi e ha chiesto al figlio se potevo essere interessata a sostenere il provino. Io ho accettato e l’ho superato”.

Com’è stata, in generale, questa sua prima esperienza?
“Molto, molto interessante. Essendo la mia prima volta è stato bello rendersi conto di tutto quello che c’è dietro la costruzione di un film. È stato bello scoprire l’organizzazione televisiva, così diversa da quella del cinema e del teatro, che in poco tempo riesce a concludere tutto”.

Quali sono queste differenze?
“La televisione richiede tempi più serrati. Quindi diciamo che i takes, le riprese che vengono realizzate con una unica inquadratura, sono al massimo una-due, non c’è molto tempo per lavorare la scena. Si fanno magari prima delle prove molto molto brevi, di circostanza, e poi si gira. Tutti noi non abbiamo girato più di un paio di takes a volta”.

Quindi non ci sono stati tanti ciak come al cinema?
“No, molto pochi. Per me  è stata una bella sfida perché devi essere pronto nell’immediato, non si gira in ordine cronologico, ma in base alla location, alla disponibilità degli attori, alla luce. Quindi lo sviluppo del personaggio non segue un suo sviluppo cronologico ma l’attore se ne deve occupare da solo interiormente. Bisogna essere pronti ad entrare anche in una scena che è cronologicamente più lontana rispetto alla precedente girata. Una bella prova che mi ha dato tanto e che sono felice di aver portato a termine per la mia crescita  professionale e umana, dato che trattava un tema così importante, pesante, delicato”.

Le riprese quanto sono durate?
“Otto giorni del mese di novembre scorso. I tempi erano serrati per motivi di budget. Ci venivano a prendere coi pick up per girare la mattina molto presto, verso le cinque o le sei, per la preparazione con trucco e parrucco. Il trucco era essenziale ma il parrucco era ovviamente più ricercato data l’ambientazione storica. Per prepararmi la pettinatura la signora Maria, addetta all’opera, ogni volta, impiegava circa un’ora e un quarto”.

 La sua sfida più grande qual è stata?
“Riuscire a rappresentare una figura realmente esistita cercando di portarle il giusto e doveroso rispetto”.

Ce ne parli…
“Era Henia Feintuch, una ragazza ebrea di origini austriache di circa vent’anni  innamorata di Leo Verderber che sposa in una delle scene più gioiose del film. Lui le sopravvive e appare nel film accanto all’attore, Marco Pratesi, che lo ha interpretato.  Di lei, come anche di molti altri, non sappiamo granché tranne che è morta ad Auschwitz appena arrivata. Nel film si vede che alcune famiglie intuiscono di essere prossime al trasferimento nei campi e si danno alla macchia. Leo è tra quelli che riescono a salvarsi e, saputo a guerra finita di essere diventato vedovo, si risposa e ha una figlia. Quando la produzione li ha rintracciati e ha intervistato sia lui che la figlia è venuto fuori che lei era completamente ignara del primo matrimonio del padre”.

Queste tragedie sono fardelli duri da portare. Per riuscire ad interpretare questo personaggio ha usato qualche tecnica particolare?
“No, essendo il mio primo film era tutto abbastanza nuovo e mi sono completamente affidata alle indicazioni della contestualizzazione storica che mi era stata data e ai consigli del regista e colleghi registi del settore”.

Mi è parso che sia riuscita a mostrarci una ragazza semplice, riservata, innamorata dallo sguardo pudico, un po’ com’erano le ragazze di quel tempo.
“La ringrazio, ci ho provato con molta attenzione e cura”.

Quali sono gli altri personaggi che l’hanno colpita?
“Sicuramente la migliore amica di Henia, Elizabeth Berndt, che era interpretata da un’altra attrice toscana, Elena Meoni. Ho trovato che fosse un personaggio veramente dolce che, nonostante l’ambiente di stenti e privazioni in cui vivevano, riesce con l’amica  a trovare momenti di gioia e di speranza creando una piccola scuola per i bambini più piccoli dove loro erano le docenti. La loro amicizia era molto bella ed è stata bello metterla in scena con Elena, che è molto brava, con cui c’è stata una piena sintonia”.

Elizabeth che fine fece?
“Faceva parte di quelle famiglie che non si fidano di fuggire come fecero quelle che si salvarono per scampare al trasporto avendo anche la madre anziana, e anche lei muore come l’amica ad Auschwitz”.

 Com’è stato il suo rapporto con la gente del posto?
“La gente del posto è stata adorabile. Credo sia stata molto apprezzata la narrazione di una storia delle loro parti e così poco nota per cui anche per questi motivi sono stati tutti molto disponibili partecipando con entusiasmo come comparse e collaborando con grande rispetto verso la produzione”.

Col regista e i colleghi?
“Tutti sono stati una grande fonte di ispirazione per me dato che la maggior parte di loro erano più esperti di me, e vederli all’opera mi è stato utile. Tutti ci siamo dati una mano consapevoli di star narrando una storia di persone realmente esistite che andava onorata e rispettata. Il regista Luca Brignone ha una grande esperienza con le fiction televisive avendo lavorato in serie di successo come ‘Don Matteo’, ‘Il Paradiso delle Signore’, ‘Rocco Schiavone’ con Marco Giallini, e questa sua competenza si è vista. Infatti, sia pur con tempi strettissimi e quindi con l’ansia di non rispettarli e il freddo garfagnino limitante di quei giorni, è riuscito a realizzare un’ottima opera in un modo che mi viene da definire perfino un po’ miracoloso”.

 

Qual è l’importanza di un film come questo?
“Della Shoah se ne parla abbastanza, ma probabilmente non nei modi e nei luoghi che dovrebbero essere più consoni. Forse nella scuola bisognerebbe parlarne ancora di più. Questo film è importante perché ha preso la piccola storia di un piccolo paese  rendendolo rappresentativa di tutta quella sciagura”.

La piccola storia esemplificativa della grande…
“Certo, poi è stato usato un format in cui sono state prese tante piccole storie di quella comunità e tramite queste si è raccontato un momento storico molto tragico e triste”.

 Un lavoro necessario quindi…
“Credo che l’arte debba fare questo, ed è un modo importante al pari di un libro per raccontare cosa c’è stato prima di noi”.

Suoi progetti in atto e futuri?
“Sto attualmente lavorando con una compagnia teatrale di Prato  che si chiama ‘Sotterraneo’, con cui stiamo preparando uno spettacolo che debutterà ad aprile e dopo Prato andrà in tournée al Piccolo Teatro di Milano, a Bologna, Torino e altrove. Il titolo è ‘Il fuoco era la cura’ ed è liberamente ispirato a ‘Farenheit 451’ di Ray Bradbury, un romanzo distopico”.

Che ha ispirato il famoso film di Truffaut che personalmente adoro.
“Esatto, proprio quello”

La docufiction “Per Un nuovo domani” si potrà vedere al cinema?
“In questa settimana, dal 7 al 10, il film  sarà proiettato al cinema Arsenale di Pisa per le scuole di mattina e il pomeriggio per le università. In particolar modo alla proiezione dell’8 parteciperò anch’io con i miei colleghi Elena Meoni e Paolo Giommarelli, e lo sceneggiatore Mario Cristiani”.

Ringrazio Flavia per l’interessante incontro e penso di non essere ancora soddisfatto perché una simile ottima produzione artistica su una tematica così importante merita di essere approfondita ascoltando altri interpreti.

Intanto concludo con un aforisma frutto della grande penna di Josè Saramago che ritengo pertinente: “Noi siamo la memoria che abbiamo e la responsabilità che ci assumiamo. Senza memoria non esistiamo e senza responsabilità forse non  meritiamo di esistere”.

Guido Martinelli

Foto di Alfea Cinematografica e Guido Martinelli

 

 

 

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