103 views 19 min 0 Commenti

La memoria è tutto. Intervista a Paolo Giommarelli, attore del docufilm “Per un nuovo domani”

- Cultura, Interviste, Primo piano
9 Febbraio 2024

Guido Martinelli

Ho già evidenziato nella precedente intervista sul docufilm “Per un nuovo domani”, prodotto da Rai e Alfea cinematografica pisana, l’importanza di continuare a parlarne. Ricordo che la storia tratta la triste vicenda dei circa settanta ebrei stranieri deportati in Garfagnana tra il 1941 e il 1943, prima di essere mandati ai campi di sterminio e di cui solo in sei riuscirono a sopravvivere. Mi sembra necessario parlarne dato che tutti i giorni la cronaca ci ricorda che noi umani non riusciamo a far tesoro dai nostri errori.

Per far questo sono andato a cercare un altro attore pisano interprete del docufilm, Paolo Giommarelli. Essendo persona e artista di grande esperienza e preparazione, ho deciso di provare ad allargare con lui il discorso sull’opera, interpretata toccando anche aspetti storico culturali ad essa collegati.

Paolo, invito anche lei, come sempre, a presentarsi…
“Mi chiamo Paolo Giommarelli, sono nato a Pisa sessant’anni fa, quindi ne ho vista di acqua sotto i ponti dell’Arno, del Serchio e della Lima. Sono un attore e quando capita regista e anche pedagogo teatrale. In teatro ho recitato in moltissimi spettacoli e tra i più importanti potrei limitarmi a citare due produzioni toscane di successo, “Una città proletaria” messa in scena al Verdi pisano dal testo di Athos Bigongiali con la regia di Paolo Pierazzini. A seguire uno spettacolo su “Cronache di poveri amanti” di Pratolini con la regia di Carlo Lizzani”.

Film?
Partendo da ‘Zuppa di pesce’ di Fiorella Infascelli, una piccola parte in Jonny Stecchino di Benigni, ‘Uomini donne e bugie’ per la regia di Eleonora Giorgi in cui ero il co-protagonista in quanto marito di Ornella Muti, in cui si parlava di una storia familiare ambientata nei giorni dell’allunaggio. Una delle ultime cose è stato un film televisivo sulla storia di Enrico Piaggio di due anni fa dove, oltre a ricoprire il ruolo di attore, ero pure il coach che aiutava a dare agli attori romani una leggera sporcatura di toscano della costa, dato che recitavano in una storia ambientata dalle nostre parti. Non voglio scordarmi di citare anche la partecipazione a ‘La prima cosa bella’ di Paolo Virzì, tanto per restare in ambito toscano”.

Quindi può parlarci con cognizione di causa delle differenze tra girare un film e un docufilm come questo “Per un nuovo domani”?
“La differenza principale, innanzitutto, tra cinema e televisione, è che nel cinema mediamente si gira in media  due-tre minuti al giorno. Invece, in tv, si va dai sei ai dieci minuti se si tratta di fiction, ai venticinque se si tratta di soap, candid o quant’altro. Quindi è un problema di tempo che diventa cura nella messa in scena, nella messa in spazio, nel tempo dato al direttore di fotografia per piazzare le luci, agli arredatori per mettere tutto a posto, agli attori per verificar bene le azioni che devono fare e vedere se sono intonati tra di. loro. Insomma, il cinema da più tempo e si vede che è più curato. La televisione è più un prodotto di consumo. Non parliamo, poi, delle soap. Nella docufiction in questione è stato fatto un tentativo di coniugare la necessaria velocità di riprese dovuta a motivi economici con la volontà, oserei dire l’azzardo, da parte del regista Lucia Brignone cui va il mio plauso, di curare di più le riprese. Infatti, come si vede bene guardandolo, Brignone faceva muovere bene le camere in continuazione in azioni mirate e curate. Ha veramente cavato il sangue dalla rape”.

Ascoltandola mi sorge una domanda forse banale ma essenziale. Di questi tempi, nel nostro Paese, è difficile fare l’attore?
“È impossibile, a meno che uno non sia pazzo come Van Gogh. In  genere consiglio di gestire la propria vita in altro modo. Stanno tornando di moda in quanto mestieri degni di nota quelli che hanno a che fare con l’artigianato, che è arte, e non a caso hanno la stessa origine etimologica. A dir la verità è dagli anni duemila che certe decisioni politiche hanno cambiato progressivamente l’atteggiamento popolare generale verso la cultura in genere e il teatro in particolare. Le faccio un esempio. Negli anni 80, a Pisa, al Teatro Verdi, una compagnia stava sei giorni, dal martedì alla domenica con la doppia al giovedì. Quindi c’erano sette repliche  in una settimana con 850 posti a sera dato che era quasi sempre esaurito, per cui circa 6.000 persone vedevano uno spettacolo. Oggi, se va bene, sono due giorni a compagnia per 850 posti a volta che fa circa 1.500 spettatori totali. Il teatro ha perso, in media,  il 400% degli spettatori. Se quando ero giovane si parlava male delle signore che facevano l’abbonamento impellicciate per farsi vedere a teatro ora si può dire  che almeno ci andavano. Ora non ci si va più, i ragazzi non se ne parli. E poi è un gatto che si morde la coda. Le produzioni sono più povere, gli attori inevitabilmente fanno quindici cose, quando son bravi si concentrano e quando non son bravi non fan nemmen questo e son dei  presentatori o, peggio ancora, degli ospiti  televisivi per cui diventano un’altra cosa”.

Allora, già che siamo sull’argomento, ci può dire anche il suo pensiero sulla condizione della cultura in genere nel nostro Paese?
Conosco meglio il mondo teatrale ma posso citare un dato interessante che è quello che riguarda la lettura dei libri. Gli italiani, come sappiamo, sono tra quelli che leggono di meno in assoluto nel continente, e i pochi che leggono, un élite, sono anche una strana composizione. Infatti l’80% del consumo  culturale del nostro paese che si tratti di cinema, teatro o letteratura, proviene dal mondo femminile. Le donne sono le uniche che per sensibilità, voglia di crescere, perfezionarsi, o quel che si vuole, si occupano di cultura. I pochi maschi eruditi leggono saggistica, altrimenti al cinema o al teatro ci vanno solo se devono accompagnare la compagna. Dei concerti poi non se ne parli, a meno che non siano rapper e non abbiano quindici anni. Il consumo culturale, insomma, è limitato anche perché stiamo appiccicati a pc e smartphone dalla mattina alla sera come prima accadeva con l’apparecchio televisivo. Con la differenza che con quest’ultimo c’erano degli spazi di libertà mentre gli altri mezzi tecnologici non te li concedono. Una situazione in cui ci sono anche precise responsabilità politiche che ben conosciamo”.

Com’è finito su questo set sulla Shoah garfagnina?
Perché la produzione, l’Alfea cinematografica, è pisana, e quindi loro mi hanno chiamato per chiedermi se ero interessato a ricoprire questo ruolo. Ci sono stati dei provini che, per fortuna, in questa occasione si sono svolti dal vivo dato che, dopo il lockdown, i provini si facevano a distanza mandando dei video da casa. Stavolta, invece, sono stato convocato a Castelnuovo Garfagnana al teatro Alfieri con il regista Luca Brignone, e quindi questo ruolo me lo sono conquistato sul campo (ride)”.

Come valuta l’esperienza complessiva di questo docufilm?
“La storia vera rappresentata dal film, come molti, non la conoscevo, ed è un fatto inusuale perché settanta persone che vengono in un paese dovrebbero lasciare tracce, si vede che il racconto non è mai partito, e devo dire che l’ho trovata molto interessante. Ho trovato il mio personaggio divertente, e lo dico proprio in senso ampio, perché non è sempre divertente interpretare Gesù ma lo è di più interpretare Satana”.

Qual era questo suo ruolo?
Un comandante dei carabinieri che in realtà non era un comandante delle SS ma una  persona che deve mantenere l’ordine, operazione difficile perché nel 1941 siamo già in guerra.  Il fronte, in quei tempi,  è lontano ma c’è fame, ci sono pochi approvvigionamenti, e tu devi comunque mantenere l’ordine in un paese in cui ti arrivano settanta persone, tra l’altro di un’altra cultura che non conosci, che vengono a mischiarti le carte. Soprattutto, ogni tanto, accadono dei problemi con questi nuovi arrivi per cui lui magari non prenderebbe provvedimenti ma  è schiacciato dal prefetto, dal questore, che vogliono, invece, delle cose dato che, a cascata, ognuno se la prende con l’altro e io, infatti, me la rifaccio con maresciallo”.

Come valuta questo personaggio?
“Non ne ho fatto una valutazione morale però capisco che, nel mondo, non ci sono solo eroi, non ci sono solo dei codardi, ma delle persone che ritengono di  dover fare un certo tipo di lavoro  secondo i loro intendimenti e lui, qualunque siano questi intendimenti, cerca di farlo nel modo migliore possibile. Lui è un servitore della patria che in quel momento era fascista e lui fa quel che deve fare”.

Magari lui non era fascista?
“Non credo, ma non era nemmeno fondamentale nella storia. D’altronde quando uno è militare è militare, ubbidisce e basta. Mio padre era maresciallo dell’aeronautica e certe cose non si discutevano”.

Anche il mio era appuntato dei carabinieri e condivido in pieno quel che dice. Anzi, in certi atteggiamenti del suo comandante ne ho rivisti alcuni dei suoi anche in borghese. Com’è stato il suo rapporto con regista, colleghi e gente del posto?
”La gente del posto ha partecipato con passione dato che si siano presentati credo in 500 per fare le comparse. Con tutto il cast c’è stato un buonissimo intendimento sia con i giovani che con i meno giovani. E’ stato girato in otto giorni, in modo molto intenso, e molto probabilmente questo ha fatto si che tutti operassero compatti per raggiungere l’obiettivo. Il regista, come ho detto prima, è stato bravissimo  a far le nozze coi fichi secchi, non solo per la qualità artistica finale che pure è stata altissima, ma per aver fatto marciare con compattezza ogni reparto, da quello artistico a  tecnico, ammnistrativo, organizzativo dato che c’era poco tempo a disposizione. Tutto andava fatto velocemente e bene e così è stato”.

Il rapporto con Neri Marcorè com’è stato?
“Ottimo. Lui è stato straordinario. Disponibile e ironico, una battuta te la faceva sempre dopo ogni scena, e per la grande esperienza che ha dopo averla detta, mentre gli altri stavano ancora ridendo. lui era già pronto per girare Ha mostrato una professionalità straordinaria”.

La presenza di Marcorè è stata importante per l’intero progetto?
“Senza dubbio, lui è stato l’attore affermato gradito al pubblico e alla produzione intorno a cui si è aggregato tutto il resto”.

Ho trovato la recitazione di Marcorè molto centrata, misurata, attenta, credibile, nella parte di Israel Maier che sarebbe praticamente il leader degli internati.
“Si, è un pediatra che cura il figlio del maresciallo dei carabinieri e in questo modo agevola il soggiorno degli internati. Lui e i suoi cari riescono a fuggire prima di essere trasferiti nei campi e, dopo aver vissuto alla macchia con l’aiuto dei contadini del luogo, riescono a sopravvivere”.

Che ne pensa della vicenda storica?
“Prima si parlava di cultura e quindi anche di memoria che viene da Mnemosine che è la madre delle muse, cioè dell’arte. Se non hai memoria non puoi fare arte. La storia è la semplificazione dell’arte perché ti dà gli strumenti, ti ricorda  cosa è stato il genere umano da quando ha cominciato a comunicare e a fare arte. Questa vicenda storica è contraddistinta dalle sofferenze, dalle privazioni di queste persone perché loro erano in ‘internamento libero’, un ossimoro tremendo, vivevano apparentemente liberi in paese e in case ma dovevano seguire le stesse regole dei carcerati. Ecco, non somiglia un po’ a quello che accade a Gaza? La storia si ripete in qualche modo”:

Comprendo e anch’io trovo somiglianze ma converrà che ci siano delle forti  differenze in numeri e contesti.
Senza dubbio alcuno, le vicende hanno delle diversità, ma la storia dovrebbe servire da monito e impedire che anche ai nostri giorni si riproducano certi fatti, ci siano ancora tanti morti innocenti. La scorsa  settimana c’è stata una proiezione all’Arsenale per alunni delle scuole superiori con successivo dibattitto, ed è questa l’importanza di questo docufilm e altri similari, al di là della resa spettacolare ed artistica: la memoria. Che va realizzati con cura. Nei film sulla shoah siamo abituati a vedere campi di sterminio, scene emotivamente molto forti. Nel nostro docufilm non c’ nessuna violenza fisica ma solo psicologica. A parte una in cui viene portata via una bambina”.

Vero, anch’io mi sono commosso quando la bambina viene portata via dai fascisti sotto gli occhi dell‘amica piangente.
“Già, ma è l’unica, ed è importante per dirci che il nemico è sempre alle porte, a volte è dentro di noi e tutti noi e abbiamo a che farci. Ogni vicenda non parifica le altre. Ognuna ha le sue specificità”.

 Ora sembra che certi fantasmi ritornino…
“Certo, ma tutto questo è stato preparato prima, niente accade per caso e la politica, come accennavo prima, ha le sue responsabilità. Tante conquiste sociali ottenute con tante lotte ora sembrano messe in discussione. Lo vediamo quotidianamente in tanti settori che toccano da vicino la nostra vita”:

Progetti in fieri e futuri?
Il 12 aprile al Teatro Grattacielo di Livorno  ci sarà  il “Diario di un inadeguato” con Emanuele Salce. Trattasi della ripresa di uno spettacolo che si  chiamava “Mumble mumble” di cui abbiamo realizzato più di 500 repliche e del quale questo sarebbe una sorta di spin off, il continuo. In queste settimane sto conducendo un corso di lettura ad alta voce a Calci presso la libreria Armani. Lo stesso corso che l’anno scorso avevo condotto per Mds, quest’attività della lettura ad alta voce mi diverte molto”.

Ringrazio Paolo Giommarelli, il nostro incontro è stato veramente interessante e pieno di spunti che meriterebbero approfondimenti, data l’importanza e la vastità delle tematiche accennate.

La chiusura, invece, la voglio affidare ad una massima della senatrice a vita Liliana Segre, che trovo adeguata alla bisogna: “Coltivare la memoria è ancora oggi un vaccino prezioso contro l’indifferenza e ci aiuta, in un mondo così pieno di ingiustizie e sofferenze, a ricordare che ciascuno di noi ha una coscienza e la può usare”.

Guido Martinelli

Foto di Alfea cinematografica e di Paolo Giommarelli

Condividi la notizia:
Articoli pubblicati: 240

Collaboratore

Lascia un commento