Ilaria Clara Urciuoli

Ripercorrere la mostra su Fernando Farulli, organizzata dal Comune di Fiesole e dall’Accademia delle belle arti di Firenze per festeggiare il primo centenario della nascita dell’artista che fu anche assessore del comune fiesolano, vuol dire non solo ripercorrerne l’itinerario pittorico ma anche gettare uno sguardo sulla storia italiana dal secondo dopoguerra fino agli anni ‘80. L’esposizione, visibile fino al 17 settembre presso tre distinte sedi (due fiesolane, la Sala del Basolato del Comune e la sala Costantini che accolgono rispettivamente le opere degli anni ‘40-‘60 e degli anni ‘70, e una fiorentina con i lavori realizzati negli anni ’80 raccolti nella Sala Ghiberti in via Ricasoli), inizia con opere cubiste, alcune delle quali tanto estreme da sembrare astratte: come molti artisti suoi contemporanei anche Farulli nell’immediato dopoguerra fece una scelta di tipo neocubista, frutto della necessità – spiega il curatore Marco Pierini – “di riconciliare le coscienze con la possibilità di fare arte e di superare l’afasia creativa cristallizzata nella celebre sentenza di Adorno: Scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie”.

Farulli comprende che, necessariamente, l’arte deve essere strumento di crescita personale e collettiva. Il modo che trova per dare il suo apporto alla società è quello di concentrare la sua spinta creativa nella raffigurazione della realtà impersonale ed alienante delle fabbriche. Ritrae dunque l’Italia che cambia, che lotta da un lato per affermarsi economicamente e politicamente a livello internazionale e dall’altro, nel microcosmo della famiglia, per il vivere quotidiano fatto di doro lavoro.

Una pittura sicuramente figlia di un pensiero politico e sociale dunque, che vede un’evoluzione tanto stilistica quanto contenutistica nell’abbandonare gradualmente il cubismo (per avvicinarsi a un espressionismo non misurato su nomi di altri artisti ma fatto proprio) e nell’addentrarsi, negli anni ’60, all’interno delle fabbriche portando su tela non più i paesaggi dominati da ciminiere e da architetture industriali ma i giganteschi ingranaggi che compongono quei mostri e gli stessi lavoratori, macchine anche loro sembra suggerirci celando visi e corpi dietro le tute da lavoro e protezioni. Passiamo dunque da titoli come Capannone, Fabbrica, Ferrovia, Pontile ad altri centrati sull’umano come Costruttori.

A catturare l’occhio del visitatore è sicuramente l’uso che Farulli fa del colore: vivo, accostato in contrasti talvolta molto forti, confinato in un tratto nero marcato che identifica le forme, più o meno piatto a seconda del periodo, questo suo fare pittura (evidente negli anni ’70) risulta vicino alla sensibilità dell’osservatore che oggi visita la mostra soprattutto quando questo si associa alle tele di grandi dimensioni.

Tra le opere presentate nella prima delle sale (Sala Basolato a Fiesole) che compongono l’articolato percorso della mostra troviamo testimonianza anche dello stretto legame che Farulli aveva con la città di Piombino. Sono lì esposte alcune delle xilografie che rientrano nella cartella “Diari di Piombino” del 1963 in cui troviamo scritte incise anche le riflessioni che la vista di quelle architetture suggeriva allo stesso Farulli.

Ilaria Clara Urciuoli

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