Doady Giugliano

“Se fossi un filosofo, dovrei scrivere una filosofia dei giocattoli, per dimostrare che nella vita non bisogna prendere nient’altro sul serio e che il giorno di Natale in compagnia dei bambini è una delle pochissime occasioni in cui gli uomini diventano completamente vivi”. Così scriveva nel secolo scorso il sociologo statunitense Robert Lynd, professore alla Columbia University di New York. Una frase che fa riflettere, soprattutto riporta indietro nel tempo noi bambini degli anni ’50-’60. Un periodo, quello, dove il Natale esisteva ancora, o meglio esisteva ancora la famiglia, le tradizioni, i valori, anche per i tanti che pur vivendo di quel poco che passava il “convento”, si accontentavano, forti di tanta speranza, fonte di una felicità interiore che oggi è scomparsa assieme al Natale.

In realtà, il Natale non è scomparso, parlo di quello autentico. Ci è stato negato, prima dal Moloc del consumismo sfrenato, successivamente sradicato nel nome di una finta accoglienza di coloro che, giorno dopo giorno, si sono assurti a paladini dei diritti dei nostri “ospiti”, e per non disturbare la loro sensibilità (sic!) hanno negato a tutti gli altri (evviva la democrazia) crocifissi, presepi, canzoncine natalizie e altri simboli secolari. Questi “paladini” evidentemente
appartengono alle generazioni che non hanno avuto il dono del calore di una vera famiglia, il dono del senso di appartenenza ad un popolo che ha radici profonde, non solo religiose.

Il “nostro” Natale rimane ancora un nostalgico punto fermo nella mente e nel comportamento quotidiano, dove un tempo tutti salutavano tutti. Cosa sanno questi “paladini” dell’ansia di quel bambino che mano nella mano ai genitori e fratelli, affrontava il buio delle strade, comunque sicure, senza tremare se non per il freddo che arrossava le nostre piccole gambe scoperte (si portavano i pantaloni corti fino alle scuole medie). Un freddo cane, dovuto a quelle stagioni scomparse come il Natale. Un piccolo sacrificio ben ricompensato per accedere alla Messa di mezzanotte. Per noi bambini uno spettacolo irripetibile. Tutta quella gente, ricchi e poveri insieme a cantare “Tu scendi dalle stelle”, “Astro del ciel”, e poi la notizia della nascita del Redentore, del quale solo qualche anno dopo capivamo il senso. Nel frattempo, Babbo Natale, aveva depositato i suoi doni accanto al Presepe, sotto quell’abete carico di palline di vetro, il cui profumo si sentiva già per le scale che, pur ripide, salivamo di corsa con il cuore che batteva a mille.

Doni, non sempre di valore, come ci dicevano i nostri genitori, causa le troppe spese che il Babbo Natale di turno aveva affrontato durante l’anno che stava allontanandosi. Sul pranzo di Natale ci sarebbe da scrivere un libro, ma ricordo ancora noi bambini impegnati a tagliare la pasta fatta in casa con il bicchiere, e con il cucchiaio a riempire i cerchietti ricavati con un sugo il cui sapore alberga ancora nelle nostre papille gustative.

Famiglie riunite, amore, calore, profumi e parole dei grandi, soprattutto dei più anziani, i nonni che raccontavano dei loro tempi, della miseria sofferta, regalandoci perle di saggezza da spendere quando saremmo diventati grandi. Momenti di gioia irripetibile, per mancanza oggi, di famiglia, valori, sentimenti, di anziani, oggi in gran parte relegati in qualche ospizio quale “giusta” ricompensa per gli innumerevoli sacrifici che hanno fatto per i loro figli, i loro nipoti.

Mi chiedo, allora, quale senso abbia oggi farsi gli auguri per un evento prettamente consumistico. Proviamo a tornare bambini, come diceva il sociologo Lynd. Forse, potremmo in un futuro, riottenere in Natale che di spetta!

Doady Giugliano

 

Foto: Bambina davanti a un presepe illuminato a Torino, nel 1950 (© SILVIO DURANTE / LaPresse / ilPost.it)

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