Giuseppe Capuano

Sono nato al Sud. Buona parte della mia infanzia l’ho trascorsa a Capua insieme a una moltitudine di parenti: una dozzina di zii e zie, un’altra dozzina tra cugini e cugine, più svariati K parenti meno stretti, con K intero grande a piacere, come direbbero i matematici. Va da sé che gli eventi/feste per riunire la congrega capitavano spesso: compleanni, battesimi, comunioni, matrimoni, e via festeggiando. Ma il Natale era la festa principe, pardon principessa. Iniziava tassativamente dopo l’8 dicembre con i preparativi dei vari presepi. Ricordo scambi di pastorelli e laboratori improvvisati per ridare gli arti perduti ai personaggi, installazioni di scenari con carta e cartone, consegne a domicilio di muschio e sassolini, insomma tutto quanto poteva servire per gli allestimenti.

L’albero non si faceva, non rientrava nella tradizione. Babbo Natale era solo una leggenda nordica, per i regali noi bambini dovevamo aspettare ancora un po’, fino all’arrivo della Befana il 6 gennaio. Ma non divaghiamo, torniamo indietro di qualche giorno, alla Vigilia, la giornata più lunga dell’anno. I primi appuntamenti erano già nella mattinata, divisi per due-tre nuclei familiari, presso le case degli zii che potevano permettersi una cucina grande e una sala ampia.

Si preparava il cenone della sera, con l’immancabile scarola liscia con uvetta e pinoli. E i dolci per il pranzo di Natale, soprattutto gli struffoli, con il miele e i confettini, che venivano montati a piramide, vere e proprie montagne di struffoli. Occupazioni rigidamente separate per sesso: le donne, zie e cugine più grandi in cucina; gli uomini in salotto a fumare e a raccontarsi. Noi piccoli, di ambo i sessi, avevamo il privilegio di poter vagabondare per la cucina in qualità di assaggiatori di struffoli e di soggetti da coccolare nelle pause di riposo.

Un po’ prima della mezzanotte i vari gruppetti familiari si riunivano in un’unica casa, con il salone grande che diventava una specie di “sala d’attesa” per la imminente nascita. All’avvicinarsi della fatidica ora zero una sapiente regia disponeva tutti in perfetta fila indiana con alla testa il pargolo ambulante più piccolo. A lui/ lei veniva consegnato il bambino Gesù di terracotta che avrebbe trovato posto nella culla, rigidamente di paglia.

Per completezza di informazione dirò che negli ultimi anni la fortunata pargola fu proprio mia sorella Marta. Al ciak del regista la lunga fila di parenti si muoveva in processione fino alla capanna, intonando sommessamente “Tu scendi dalle stelle” e, in un sussulto mistico/religioso, avveniva la deposizione. I cugini più grandi invece erano impegnati con l’accensione delle stelle filanti la cui luce tremula si rispecchiava negli occhi meravigliati, stile manga, di noi bambini piccoli.

Alla fine era tutto uno scambiarsi baci e pacche sulle spalle e spesso non mancava qualche lacrima degli zii più anziani. Di tutto questo ho un ricordo di soli pochi anni, la Toscana ci stava aspettando e ben presto imparai anche a fare l’albero. Ma il presepe, seppur piccolo, ho continuato a farlo.

Giuseppe Capuano

 

Foto: Pixabay

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