Ilaria Clara Urciuoli

Berretto in testa e maglietta, profilo basso e una calata contaminata, tra romanesco e toscano: Alessandro Capitani, classe 1980, regista proveniente dalla piccola realtà orbetellana, più che farsi vedere sembra voler raccontare, più che parlare egli stesso lasciar parlare il pubblico. Un passato nei cortometraggi, nel 2016 vince con “Bellezza” il premio David di Donatello. Protagonista è il disagio ma anche l’amore e l’accettazione, forze che vengono tenute insieme dal valore del corpo, dal suo significato sociale e personale. Nel 2018 ha esordito nel cinema con “In viaggio con Adele” (con Alessandro Haber e Sara Serraiocco), la storia di un viaggio che unisce un padre e una figlia con la sindrome di Asperger, fino a quel momento sconosciuti l’uno all’altra. Lo scorso autunno il suo secondo film “I nostri fantasmi”, con Michele Riondino, Hadas Yaron e ancora Alessandro Haber: una pellicola che si affaccia con delicatezza e speranza su realtà sempre più diffuse: da un lato la povertà e le famiglie monogenitoriali, dall’altro la violenza sulla donna.

Ne “I nostri fantasmi” hai deciso di mettere in scena gli invisibili, di dare loro voce. È un film che abbraccia più filoni narrativi e sembra ricordarci che non possiamo ragionare, come spesso facciamo per semplificare, a compartimenti stagni. Né quando parliamo delle nostre vite, né quando affrontiamo problemi sociali.

“Sì, nel film troviamo i fantasmi, quelli che fanno parte della nostra quotidianità ma che non vediamo o facciamo finta di non vedere. Lo spunto nasce dall’esperienza fatta con Iannacone per “I dieci comandamenti”, il programma RAI. Il mio ruolo era quello del film maker, quindi di osservatore con la camera in mano. Tra le varie cose fatte andammo a Milano per raccontare la storia di un ufficiale giudiziario che andava a casa delle persone a comunicare gli sfratti. In quella occasione sono entrato in un mondo devastante da un punto di vista psicologico: ho visto persone che avevano problemi enormi, che non riuscivano ad arrivare a fine mese e che avevano difficoltà a pensare al domani. Parlando con l’ufficiale giudiziario Giuseppe Marotta (che dalla sua esperienza ha tratto un libro, “Sfrattati”) mi è venuta l’idea di raccontare le vicende delle persone che non volevano uscire dal proprio appartamento. Ovviamente questo era un pretesto per affrontare poi anche altri temi”.

E hai voluto farlo scrivendo una storia, non attraverso un documentario, genere che pure hai frequentato con, ad esempio, “Come prima, più di prima Mi amerò” del 2011, in cui raccontasti le quindici donne che partecipano al concorso Miss Chirurgia Estetica 2010.

“Sì, non volevo un film documentaristico alla Carpignano. Volevo metterci l’invenzione, la favola, la recitazione, tutte cose che mi piacciono. La scrittura di un film ti dà delle possibilità espressive che il documentario non ti dà: in quel caso devi registrare la realtà mentre nel film decidi tu dove portare la nave, il racconto e i personaggi e questi personaggi dovevano percorrere un arco narrativo che li portava in qualche modo a rinascere, a ricominciare. Era questa la chiave: come da un incontro possa sgorgare benzina per ricominciare da capo”.

Parola chiave: ripartenza, come in pandemia…

“Se ci pensi noi siamo stati per due anni abituati a diffidare l’uno dell’altro. Eravamo potenzialmente malati, potenzialmente infetti, diversi e potenzialmente pericolosi. Questo film fa l’opposto, ci dice di osservare gli altri perché attraverso l’osservazione dell’altro riusciamo a mettere a fuoco meglio i nostri problemi e a risolverli. I personaggi di questo film si osservano tutti e proprio in quest’osservazione ognuno capisce i propri drammi. Emblematico da questo punto di vista è il personaggio di Haber.”

Personalmente ho apprezzato che forti temi sociali fossero inseriti in una realtà dove naturalmente si mixano varie cose. Trattare esclusivamente la violenza o un altro tema in maniera assoluta ci fa correre il rischio che queste cose siano percepite come altro rispetto alla nostra vita quando in realtà fanno parte della quotidianità in un certo senso di tutti noi. C’è chi la vive sulla propria pelle e chi di riflesso.

“Se noi avessimo fatto un film che parlava solo di violenza sulla donna o di un altro tema avremmo sbagliato, ci saremmo sentiti dire che non abbiamo raccontato abbastanza approfonditamente quel tema. Il mio obiettivo è un altro, il mio compito è un altro: quello di farle vivere allo spettatore. Analogamente nel primo film, “In viaggio con Adele”, abbiamo affrontato il tema della disabilità mentale. La protagonista aveva la sindrome di Asperger. Tutti si aspettavano un film sulla patologia, noi invece raccontavamo la storia di un padre e una figlia che si incontravano dopo anni. Poi la malattia e il disagio c’erano ma non erano il perno della storia. Anche questa è una sfida, quella di mettere insieme più generi e più sottotracce”.

Sei soddisfatto dei tuoi lavori?

“No, la mia è una risposta secca. Io non sono mai soddisfatto. Penso che ci siano tante cose da migliorare. Sono convinto che in futuro ci saranno cose migliori. Questa è una palestra molto utile per capire tante cose e confezionare un film è molto difficile”.

“I nostri fantasmi” è il primo film di cui scrivi anche la sceneggiatura. Ti piace di più la regia o la scrittura?

“Se togliamo i cortometraggi, la cui scrittura però è molto diversa da quella di un film, questo sì, è il primo film di cui ho scritto anche la sceneggiatura. Quando avevo girato il primo film ero tanto contento di fare il regista all’americana. In realtà è molto più difficile. Ho esordito con un progetto che non era mio: non ero né padre né avevo in famiglia persone con problemi di autismo quindi erano due mondi lontani da me, in cui entrare non è immediato e ha richiesto un po’ di tempo. Diverso è quando scrivi un film: i personaggi sono i tuoi figli e io lo trovo un lavoro bellissimo perché mi piace molto lavorare sulla psicologia dei personaggi”.

Nel film precedente avevi avuto anche poco tempo a disposizione, un mese se non sbaglio.

“È stata una corsa contro il tempo, da non rifare. È un modo sbagliato che hanno molte produzioni di lavorare sulle opere prime e seconde, dandoti poco tempo, pochi soldi, poco tutto. In realtà bisognerebbe fare al contrario: quando sei più bravo sei anche in grado di lavorare con meno tempo. Lì c’erano pochissime settimane. Abbiamo girato tutto in 23 giorni con la difficoltà aggiuntiva che si trattava di un road movie. Non è stato facile. Però sono molto contento di come sono venuti fuori i personaggi. Quello di Alessandro Haber e di Sara Serraiocco sono qualcosa di magico e non sempre viene”.

Da cosa è data questa magia?

“La cosa funziona quando gli attori credono in quello che stai raccontando. Haber questa storia l’aveva scritta dieci anni prima e desiderava raccontarla. C’è molto di lui, del suo rapporto con la figlia e questo si sente tantissimo. Invece molto spesso si scelgono attori che fanno più cose insieme. In quei casi entrare e uscire da un personaggio rende tutto meccanico, quindi sta alla bravura del regista scardinare quel meccanismo. Però realizzare un film è una cosa che richiede tempo e non è facile riuscire a far mantenere alta questa attenzione al personaggio. Poi sono cose che si imparano e queste esperienze ti formano”.

Nel 2018 è passato un treno che era doveroso prendere, come hai detto tu stesso in occasione dell’uscita del tuo primo film, un treno che ti ha dato la possibilità di andare oltre i cortometraggi, che pure ti hanno portato bei riconoscimenti (il David di Donatello nel 2016 ma ancora prima, nel 2013, il Nastro d’argento e la borsa di studio presso gli Studios Universal di Hollywood grazie a “La legge di Jennifer”). Com’è stato questo salto? È quello che ti aspettavi questo mondo?

“Se mi aspettavo questo mondo qua… Sì. Non ho mai dato per scontato che fosse un mondo facile. Non lo è. C’è tanta competizione, tante storie, tanti modi di vedere la realtà e raccontarla. È difficile. Mi va ancora di confrontarmi con il corto: ti dà una libertà di espressione che con il film non hai perché devi scrivere un soggetto, una sceneggiatura che deve essere convalidata corretta approvata, devi parlare con la produzione, poi la distribuzione, gli enti… Devi convincere tantissime persone. Un corto invece è molto più veloce. È un mondo che non ho abbandonato. Ne sto producendo uno: si chiama “Tre volte alla settimana”, di Emanuele Vicorito. Girato tutto a Napoli, in napoletano”.

Hai un target di riferimento per i tuoi film?

“No. Però da questo punto di vista mi piacerebbe tantissimo fare una serie rivolta agli adolescenti. Con “Bellissima” sono entrato in relazione con i ragazzi nelle scuole. Attraverso quel corto arrivi a parlare di amore, di aspetto fisico, di accettazione. Era successo anche con il viaggio con Adele, proiettato in diverse scuole pugliesi, ed è stato stupendo. Quando una ragazzina che ha il fratello autistico ti ringrazia perché attraverso il tuo film ha capito come comportarsi con lui, o una studentessa con una protesi alla gamba si avvicina perché si era sentita molto vicina alla protagonista (entrambe “diverse”), ti senti ripagato del lavoro.
Mi piacerebbe quindi lavorare con i ragazzi, raccontare storie che riguardano loro. Ne ho scritta una che per ora è nel cassetto: la storia di una pallavolista transgender, di un ragazzo che diventa una ragazza, di questo processo di trasformazione fisica in un’età complicata. Si chiama Mimì”.

Il rapporto con il corpo è un tema centrale per te.

“Oggi più che mai. Ci sono tantissime dinamiche ad esso correlate. Anche sentendo parlare amici che sono genitori. I rapporti sono diventati più fluidi ed è molto più complicato mettere tutto nei cassetti e quindi bisogna essere capaci di osservare e comprendere, senza giudicare”.

Nato ad Orbetello e cresciuto lì fino ai 18 anni, poi Bologna per la laurea in Lettere e Filosofia indirizzo DAMS, quindi il Centro Sperimentale di Cinematografia a Roma. Ci racconti qualcosa del tuo percorso?

“In realtà quando a 18 anni ho dovuto scegliere cosa fare non avevo le idee chiare. Quelle le aveva mio fratello che voleva fare l’Accademia delle Belle Arti. Io sono partito scegliendo la cosa che pensavo più semplice, senza nessuna prospettiva per il futuro né di visione del cinema. Lì poi entrai in contatto con una realtà diversa, con ragazzi che scrivevano e giravano, vedevo i loro corti. Io sono stato sempre abituato a fare, a mettermi all’opera e così, vedendo loro e grazie allo studio che ti fa capire ciò che c’è dietro i film, si accese la scintilla e capii che volevo farlo anche io. Così nel 2003, prima di laurearmi, ho girato il mio primo cortometraggio. Poi con il secondo mi hanno preso al Centro Sperimentale di Cinematografia a Roma”.

“La legge di Jennifer” ti ha permesso di andare negli Stati Uniti con una borsa di studio presso gli Studios Universal di Hollywood. Com’è stata questa esperienza?

“Complicata da un punto di vista linguistico, ma interessante perché vedi come funziona l’industria lì. Il meccanismo di costruzione e più ancora di sfruttamento di un film. Il cinema è un’industria che deve fatturare e quindi ogni film lo strizzano fino alla fine con i gadget o con le scenografie di film importanti che diventano attrazioni per i parchi a tema. Alcune cose dovremmo prenderle da loro, ad esempio il fatto che quando si stanzia il budget per un film la metà di questi soldi sia destinato alla distribuzione e non alla produzione, cosa che qui in Italia non è: qui si tende a fare un film con tutti i soldi che si hanno a disposizione e poi ad aprire un capitolo disastroso quando il film deve essere distribuito. E alla fine si ha sempre il braccino corto quando c’è da fare pubblicità con il rischio che il potenziale pubblico non sappia proprio dell’uscita di un film”.

E di Orbetello?

“Orbetello è un luogo meraviglioso, anche se sono sempre un po’ invidioso di chi veniva dalle grandi città perché lì si possono osservare più cose, più mondi, più problematiche, più dinamiche. Il venire da un vecchio paese l’ho sempre sentito come un handicap. Un mio amico veniva da Bari e raccontava questa città e faceva dei filmati bellissimi. E mi chiedevo cosa potessi raccontare io, cosa potessi girare a Orbetello che andasse oltre le storie sull’estate del primo bacio. Qualche giorno fa, dopo aver vissuto un’invasione di moscerini, l’ho capito, ho capito cosa potrei girare qui: un horror”.

Quale sarà invece il prossimo film?

“Il mago dei soldi”. È la storia di una truffa realmente accaduta in Italia negli anni ’90 a Palermo”.

Cosa ci dobbiamo aspettare?

“Fuochi d’artificio. È un film molto diverso dai primi due, con molta azione e una parte umana e sentimentale molto forte”.

Sogni nel cassetto che si possono confessare?

“Non ho grandi sogni nel cassetto. Io ho voglia di raccontare delle storie, è il motivo per cui amo questo mestiere. Voglio arrivare il più possibile alle persone che vengono al cinema a vedere quello che racconto: è questo il motore che mi spinge avanti. Qualcuno potrebbe risponderti “desidero l’Oscar” ma non io. Io piuttosto ti dico di avere una bellissima storia dopo quella che sto raccontando e poi ancora una e ancora una”.

Ilaria Clara Urciuoli

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