Luca Bocci

Pochi tifosi toscani immaginavano che la domenica dei verdetti in Serie C si trasformasse in una catastrofe tale da spazzare via dal calcio professionistico quattro società storiche in un colpo solo. Fin troppo facile parlare di Caporetto del calcio toscano, uno sconquasso del genere che colpisce quattro società dalla storia lunga e prestigiosa non può che far notizia. A dire il vero, però, ad essere sorpreso è stato solo chi ha avuto la fortuna di non dover seguire le stagioni francamente orribili di Livorno, Lucchese, Arezzo e Pistoiese, che certo non sono finite in Serie D per caso. La stagione di queste nobili decadute è stata macchiata da convulsioni societarie, frequenti cambi di allenatori, frenetica attività sul mercato invernale che non è riuscita ad invertire la corsa verso la disfatta finale e l’ingloriosa retrocessione nel calcio dei dilettanti. Un finale certo amarissimo per i tanti professionisti che hanno provato fino all’ultimo momento a guadagnarsi almeno un posto nei playout. Niente da fare, purtroppo, ed ora alle grandi toscane toccherà sperare che altre società non riescano a sopravvivere all’apocalisse finanziaria del calcio “minore” per riuscire a tornare in Serie C grazie alla finestra del ripescaggio.

Eppure i toni foschi di oggi non possono far dimenticare che non tutte le toscane di Serie C piangono. Se la Carrarese è riuscita a salvarsi ma deve comunque affrontare l’ira dei tifosi delusi, Grosseto e Pontedera sono riuscite ad arrivare ai playoff, dove potranno lottare per una storica e quantomai complicata promozione in Serie B, dove raggiungerebbero il Pisa, quasi salvo. L’Empoli, a meno di un crollo verticale, dovrebbe invece essere diretto verso la massima categoria, dove, nonostante il rocambolesco pareggio al Dall’Ara, la Fiorentina sembra vicina alla salvezza. Fa comunque riflettere il fatto che, nel giro di pochi lustri, tre società che avevano a lungo frequentato i piani alti del calcio italiano siano ora precipitate nell’universo del calcio dilettantistico. Le ragioni del crollo di società che hanno sempre vantato il sostegno di una ampia tifoseria sono molteplici, prima tra tutte la straordinariamente complicata situazione finanziaria che sta vivendo l’universo calcio in Italia e non solo, ma risulta davvero difficile trovare spiegazioni semplici ed eleganti.

Dopo essere praticamente scomparso dalla Serie A, forse il vecchio modello del calcio italiano, fatto di ricchi proprietari tifosi, pronti ad aprire i cordoni della borsa per sostenere la propria squadra, è arrivato al capolinea anche nelle serie minori. Se l’addio di Spinelli al “suo” Livorno è ormai solo questione di tempo, il progetto di Orazio Ferrari a Pistoia ha avuto una pesante battuta d’arresto, scatenando l’ira dei tifosi con la retrocessione proprio nell’anno del centenario. I tanti ambiziosi “capitani coraggiosi” che si erano presentati come salvatori della Lucchese hanno abbandonato la barca alla deriva, viste le condizioni disastrose del Porta Elisa. Anche le velleità di promozione della famiglia Manzo, proprietaria dell’Arezzo, si sono infrante contro la realtà nonostante investimenti importanti ed il coinvolgimento di un personaggio certo non improvvisato come Roberto Muzzi. Insomma, le uniche realtà che godono di una certa tranquillità sono quelle passate sotto proprietà straniere. Le voci su un possibile passaggio ad un fondo di investimenti svizzero dell’Empoli sono state smentite dalla famiglia Corsi, ma potrebbero tornare d’attualità in caso di promozione diretta in Serie A e con il completamento della vendita del Castellani da parte del Comune. Possibile che l’unica speranza per le società toscane sia quella di trovare un paperone straniero a salvare la barca? Possibile, quasi certo, ma non per le ragioni che molti credono.

Non sono i soldi di Commisso, Knaster o altri magnati a fare la differenza, ma il livello di professionalità che portano con sé quando rilevano società più o meno solide. A parte il vulcanico proprietario viola, gli altri patron non si sognerebbero nemmeno di metter bocca sulle decisioni tecniche delle proprie società. Spesso di calcio capiscono poco o niente – il che li spinge a rivolgersi a professionisti seri, spesso stranieri, che portano con sé capacità organizzative non comuni alle nostre latitudini. Basti pensare all’impatto dirompente che ha avuto sull’universo social del calcio italiano l’arrivo di Paul Rogers, vero e proprio genio del male assoldato dall’ex presidente della Roma Pallotta. L’ex dirigente del Liverpool costrinse il resto delle grandi di Serie A a prendere molto più sul serio la propria strategia social, che fino a quel momento era stata fin troppo provinciale. I passi avanti in termini di visibilità, almeno delle grandi, hanno portato grandi vantaggi a tutto il calcio italiano.

Eppure il calcio “minore” non può seguire questo modello, per ragioni puramente finanziarie. Se, a partire dalla Serie B, i diritti televisivi possono comunque garantire una qualche stabilità nei bilanci, le cose diventano molto più complicate già dalla Serie C. Quale investitore straniero potrebbe essere interessato ad investire tempo e denaro per far rinascere società storiche ma decadute? Anche per una squadra con un enorme bacino di utenza come il Bari ha avuto bisogno dell’intervento del patron del Napoli Aurelio de Laurentiis mentre l’avventura della famiglia Mirri per far rinascere il Palermo sembra già arrivata al capolinea. Quale può essere la via d’uscita per le nobili toscane? Le varie “cordate” di imprenditori locali, spesso “spinte” da politici locali per ragioni prettamente elettorali, si sono rivelate spesso inaffidabili e dalle spalle troppo strette per reggere alle sfide del calcio ai tempi del COVID. L’unico modello praticabile dalle nostre parti sembra essere quello che nessuno nel calcio italiano sembra mai prendere in considerazione sul serio: l’azionariato popolare.

A parte i casi più eclatanti, come Real Madrid e Barcellona, molti dimenticano come tutte le società di calcio tedesche, a parte il Lipsia, vedano come proprietari i tifosi, seguendo la regola del “50 + 1” applicata dalla Bundesliga a partire dal 1998. Per essere iscritti alla prima o alla seconda divisione del calcio professionistico tedesco, le società devono certificare che almeno il 51% delle quote societarie siano proprietà di soci iscritti al club e non di investitori esterni alla società. Un passo avanti rispetto al modello rigidamente non profit applicato fino ad allora nel calcio tedesco che però ha scavato un fossato sempre più grande tra le società più strutturate come Bayern e Borussia Dortmund e le altre. Non un modello perfetto, ma l’unico che potrebbe garantire un futuro per il calcio toscano al di fuori del redditizio recinto di Serie A e B. I rischi non mancano, ma la vera incognita resta la volontà delle parti coinvolte.

Per far funzionare questo modello ci vorrebbe un netto passo indietro della politica, con la volontà di seguire l’esempio del comune di Empoli e cedere la proprietà degli spesso fatiscenti impianti comunali alle società, magari in cambio di una sostanziale quota di azioni. Senza asset tangibili, convincere imprenditori e normali tifosi ad aprire i portafogli sarebbe quasi impossibile. Riusciranno però gli imprenditori a mettere da parte il sogno di diventare il nuovo Romeo Anconetani e scegliere di lasciare la ribalta delle trasmissioni televisive a dirigenti scelti non in base alle amicizie ma alla loro provata professionalità? Riusciranno i tifosi stessi ad evitare di cedere alle promesse mirabolanti di gente ansiosa di far tutto pur di prendere il controllo del club e trasformarlo nel proprio giocattolo personale, come successo con Florentino Perez al Real Madrid o Luis Felipe Vieira al Benfica? Un cammino certo non semplice, ma infinitamente più sicuro dell’affidarsi all’ennesimo salvatore della patria che, alla lunga, si stancherà di coprire i buchi di una gestione fallimentare. La domanda vera è però un’altra: siamo in grado di compiere una tale rivoluzione copernicana, specialmente in un mondo come quello del calcio, dove le ragioni della logica spesso cedono il passo alle emozioni e ai voli pindarici di personaggi poco seri?

Per il bene del calcio e della stessa società toscana, speriamo davvero che a prevalere sia la razionalità e non la voglia di protagonismo di soggetti pubblici o privati. Senza un netto cambio di rotta, giornate funeste come quella di domenica non potranno che ripetersi sempre più spesso, lasciando scivolare inesorabilmente il nostro calcio verso la totale irrilevanza.

 

 

Foto: Salvatore Ciotta

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