Guido Martinelli

La questione che mi suscitava sempre un sacco di dubbi era relativa alla faccenda del carbone. Se alla fine me lo fossi meritato di quale tipo sarebbe stato? Di quello con cui babbo accendeva il riscaldamento di casa, che come lo sfioravi ti macchiavi in modo indelebile, o quello dolce, buono, soffice, che un mio cugino aveva visto nella vetrina della pasticceria del paese? No perché se si trattava di questo allora tanto valeva darsi da fare dietro mille marachelle invece di frenarsi da metà mese.

Ma sempre secondo questo cugino, era proprio di primo tipo, che lui aveva un compagno di scuola a cui suo padre, una volta, gliene fece trovare proprio in casa un ballino bello pieno e “sporcoso” al posto della calza. L’immagine mi colpì al punto che una notte sognai che si apriva la porta e in casa entrava una nuvola nera carbonifera per cui mi trasformavo in un negro. Mi svegliai di botto urlando.

Già, perché al paese, nella lucchese Val Garfa, al tempo degli unni, quando ero ancora un cucciolo d’uomo, vigeva un rigido matriarcato che vedeva la Befana al potere, e anche se vivevo in città dall’età dai tre dove vigevano altre regole, in famiglia il predominio maschilista di Babbo Natale non era accettato.

Che poi, ma era vero quello che si diceva a scuola, che i due erano marito e moglie da secoli? Secondo tale Allegretti non era possibile perché, dopo un po’, i matrimoni finiscono, com’era accaduto ai suoi genitori, e quindi non potevano resistere da millenni, magari erano parenti, cugini. E comunque restavano ignoti coloro che li avessero generati, un po’ come era accaduto ai nipotini di Paperino.

Verso metà dicembre questa tipologia di dibattiti sull’argomento prendeva piede.

Ma quando si tornava al paese campeggiava sempre e solo la Befana, il cui unico difetto, ai miei occhi, consisteva nell’essere l’ultima ruota del carro delle festività, proprio il giorno prima del ritorno a scuola, per cui nel corso della giornata mi montava lentamente una malinconia che, la sera, diventava un vero proprio struggimento.

La questione più delicata era che i miei amichetti avevano i regali a Natale mentre io dovevo aspettare persino dopo la fine dell’anno e oltre, prima di vedermi arrivare dei regali, o meglio quelle calze lunghissime di lana di nonno o di babbo, lunghe lunghe e ricolme di dolci e qualche calzino o fazzoletto perché ero sempre raffreddato.

Certo, quando le zie raccontavano le loro befane e la gioia che provavano nei giorni magri prima e durante la guerra aprendo calze piene di arance, noci e di befanini, dolcetti semplici e gustosi, era da abbassare gli occhi per non aver provato la stessa gioia nel rinvenire quelle leccornie. E quando ammonivano noi bambini a non lamentarci, perché eravamo fortunatissimi ad avere davanti a noi la tavola imbandita con tutte le prelibatezze del boom economico, ci placavamo e sorridevamo soddisfatti.

Ovviamente, per non farmi sentire inferiore ai miei coetanei, babbo e mamma decisero, ben prima dei miei otto anni, di aprire le porte di casa di città in anticipo a Babbo Natale la sera del 23 (sorta di favore personale per noi “emigranti”) perché il giorno dopo c’era il ritorno al luogo natio. L’intraprendente vecchietto rosso bardato cominciò, così, a entrare dalle finestre o da non si sapeva dove, perché lì non esisteva il camino, per lasciare anche a me pacchi di  graditi giochi e non cibarie assortite.

Un particolare non insignificante che verso la mia decima primavera fece scattare il dibattito, come ai cineforum della mia adolescenza dopo la fine dei film: ma perché questi due si muovevano per l’etere usando mezzi antiquati come slitte e scope quando esisteva una tecnologia moderna così avanzata con tanto di aerei supersonici, razzi e compagnia bella?

Non  avranno la patente”, sparai io a ricreazione, nel gruppo dei dubitanti che si riuniva in circolo sotto l’alberello striminzito vicino alla caldaia. Poiché mi sembravano scettici proseguii: “Babbo Natale magari è troppo vecchio per le velocità di oggi, mentre la Befana non ce la può fare a prenderla perché è una donna. Lo dice sempre mio Zio Beppe che le donne stanno bene solo all’acquaio”. A quel punto le voci si alzavano. Silvi aveva la mamma che, secondo lui, guidava meglio di suo padre e quindi confutava il mio ragionamento. Giorgetti, invece, ribadiva che cavalcare una scopa richiede la medesima perizia richiesta per guidare un’automobile.

Ribattergli era facile, lei era pure una mezza strega e queste creature hanno determinati poteri antichi, non moderni, per cui certe pratiche vengono loro d’istinto. Ora gli avrei detto che “aveva la guida della scopa nel dna”.  Poi c’era sempre qualcuno più pratico che sosteneva che erano tutte balle e che loro, ormai senescenti, se ne stavano a casa mentre il traffico nei cieli era condotto da elfi e non meglio identificati “befanotti“.

Quando scoprimmo il trucco del giochino la delusione sancì la fine di tutti questi consessi. Anche se ci fu chi resistette, come un integerrimo giapponese, uno di cui rammento l’altezza e non il nome, arrivato dall’Umbria vicino casa nostra da pochi mesi. Questi, un giorno che si stava mangiando nel portico della corte poco dopo Capodanno, disse che lui sapeva che i due esistevano sul serio, anzi che era stato persino a casa loro. Gli si chiese, sorpresi e sorridenti, dove fosse questa casa, ma lui tuonò di brutto andandosene via: “Lo vengo a dire a voi, miscredenti!”.

Mi restò, di quegli anni, l’abitudine di guardare nel cielo, come facevo prima di andare a letto, la sera del 24 dicembre o del 5 gennaio, per cercare di coglierli in una delle loro spedizioni. Non ho mai avuto questo piacere ma spero che continuino ad esserci, in quelle notti, occhietti curiosi e attenti sospinti da cuori ingenui e fiduciosi.

Perché sognare non costa niente, anzi è il succo della vita, e chi si abitua alla pratica da giovane può darsi che, crescendo, riuscirà ad essere più utile a se stesso e alla comunità in cui vive.

Guido Martinelli

 

 

 

Foto: PIxabay

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