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La sfida di Casa Nannipieri Arte: la cultura deve generare profitti

- Cultura, Interviste
8 Ottobre 2020

Casa Nannipieri Arte è un gruppo di professionisti che, ispirandosi al modello anglo americano ed ai famosi gruppi Sotheby’s e Christie’s, si occupa di arte a tutto tondo: mostre, pubblicazioni, restauri, conferenze ma anche investimenti. Partendo da un assioma: la cultura deve generare profitti. Il direttore è il critico d’arte Luca Nannipieri, che in questa intervista ci racconta di cosa si tratta.

Dottor Nannipieri, a chi vi rivolgete?
La cultura dei musei vuoti, dei siti archeologici visitati solo dai topi, delle mostre fatte in casa per non spendere una lira, ha prodotto solo elemosine, volontariato e assistiti di Stato. La cultura, invece, esattamente come il calcio, la moda, la medicina, la tecnologia, deve generare profitti. Solo così produce lavoratori, non disoccupati o precari a vita. Casa Nannipieri Arte si rivolge ad imprenditori, manager, collezionisti, galleristi, artisti, direttori di musei e dice loro: con noi, attraverso pubblicazioni, esposizioni di alto profilo, relazioni internazionali, produzioni audiovisive, l’arte produce reddito e impatto mediatico.

In cosa si differenzia dalle altre realtà simili esistenti in Italia?
Anzitutto ci sono io, il direttore: dopo la morte di Philippe Daverio e il prossimo tramonto anagrafico di Vittorio Sgarbi, io sono inevitabilmente l’erede. In Italia ci sono massimo 5 critici d’arte conosciuti degni di questo nome. Io sono uno di questi. Le altre case d’arte, in Italia, vendono e comprano legittimamente quadri e sculture. Noi facciamo un altro mestiere. Vuoi fare una mostra sfigata, auto-pubblicandoti in tipografia il catalogo delle tue opere? Non ci cercare. Vuoi valorizzare la tua collezione e ti affidi al volontariato di un curatore? Non ci cercare. Vuoi dirigere un museo, ti mancano idee e cerchi associazioni di volenterosi che ti diano una mano nei progetti? Non ci cercare: vai dagli altri curatori d’arte. Cercaci se sei un artista, un mercante, un collezionista, un investitore, un direttore di fondazione che vuole dare risalto e accreditamento nazionale e internazionale alle opere d’arte che possiede.

La squadra dei suoi collaboratori è molto variegata. Ci spiega come li ha scelti?
Sono 10 professionisti, specializzati nei vari settori dell’arte antica, moderna e contemporanea. Severità assoluta (perché detesto il pressappochismo), talento e tanta fame sono le cose che esigo per lavorare con me. Anche perché sono le stesse condizioni che pongo a me stesso. Non esistono domeniche, ferie, raffreddori e mal di gola, se c’è da lavorare. Quando mi devo sentire, ad esempio, con Laura Ginatta che gira per noi tra Parigi e le capitali europee per i progetti internazionali, non ci sono orari che tengono.

Critico d’arte, scrittore, volto televisivo, imprenditore. In passato anche politico, come assessore alla Cultura al Comune di Cascina. In quale veste si sente più a suo agio?
Da Dominique Vivant Denon che ha fondato il Louvre con l’imperatore Napoleone a Giulio Carlo Argan che è stato sindaco di Roma e senatore, da Federico Zeri a Vittorio Sgarbi e Philippe Daverio, per non essere irrilevante nella società, il critico d’arte ha sempre fatto altro rispetto all’attività puramente critica. Perché un critico e uno storico, prima che produrre libri, vogliono cambiare la società in cui vivono.

Qualche anno fa un ministro disse che “la cultura non fa mangiare”. Fu sommerso dalle polemiche e per certi versi potremmo dire anche smentito dai fatti. Lei che ne pensa?
Serve che la cultura diventi industria, cioè un sistema complesso di specializzazione e di interessi di massa, organizzata secondo una struttura consolidata, così come Confindustria raggruppa 150mila imprese dell’industria manifatturiera, automobilistica, dei rami bancario e assicurativo, trasporto e logistica, dando impiego a più di 5 milioni di dipendenti. La cultura finora ha dato da mangiare solo ai garantiti del ministero dei beni culturali, ovvero i funzionari delle soprintendenze, e pochi altri del settore pubblico e privato. L’Italia rinascerà economicamente, anche dopo il Covid, quando tirerà fuori dal sottoscala tutta la potenzialità industriale, produttiva, della filiera culturale.

Cosa ne pensa dei direttori dei musei stranieri? Hanno portato una boccata d’aria nuova nella gestione del nostro patrimonio artistico. Si può fare di più?
Le medicine sono fatte da stranieri, i cellulari sono fatti da stranieri, le automobili sono fatte d stranieri, gli aerei sono di compagnie straniere, quasi tutte le cose che mangiamo vengono da fuori Italia. Perché solo nei musei vogliamo direttori che vengono da Brescello, Fucecchio o Cinisello Balsamo? L’ossigenazione internazionale, che nella scienza e nelle arti è prassi da secoli, non vedo perché debba anchilosarsi se si parla di musei. Poi ovviamente ciascun direttore andrà giudicato per ciò che fa: e se un direttore straniero sarà inadatto o inefficace, è giusto cambiarlo.

Ogni volta che penso alle ricchezze artistiche di Pisa mi viene in mente il museo nazionale San Matteo, pieno di tesori ma, incredibilmente, uno dei meno visitati in Italia. Secondo lei che si potrebbe fare?
Trovate preoccupante che Dante, Omero, Shakespeare non siano tutelati da un ente statale, ma siano diffusi, pubblicati, ripubblicati da industrie editoriali private come Mondadori, Garzanti, Rizzoli? Ecco, la stessa cosa deve accadere con i musei: la gestione e l’autonomia devono essere interamente affidati a privati, che null’altro sono che liberi cittadini che si consorziano in associazioni, fondazioni, aziende, cooperative e vogliono guadagnare e vivere dei frutti della cultura: anche dei frutti del Museo Nazionale di San Matteo, che in un’ottica gemellare con gli altri luoghi di peso della città (come Palazzo Blu o il Museo delle Navi Antiche), può fungere da attrattore per un turismo che non si ferma alla visita mordi e fuggi alla Torre pendente.

Le opere d’arte possono essere considerate, per certi versi, dei “beni rifugio”?
L’opera “Interchange” di Willem de Kooning è stata venduta a 300 milioni di dollari; “Nafea faa ipoipo” di Paul Gauguin anch’essa venduta a 300 milioni di dollari; “No. 6” di Mark Rothko, venduta a 186 milioni di dollari; “Donne di Algeri” di Pablo Picasso, venduta a 179 milioni di dollari. Nel mondo avanzato l’arte è investimento: investi un tot di tuoi soldi, ti circondi di persone specializzate che sanno dirti dove finalizzare le risorse che vuoi spendere, come non comprare falsi o fregature, e nel tempo vedi maggiorata in interessi il denaro che hai versato. Si chiamano “beni rifugio”. Ma si chiamano anche investimenti, ed è una cosa che a Casa Nannipieri Arte guardiamo con molta attenzione, imparando da quel mondo anglosassone che, ai musei visitati dai topi e dalle ragnatele, preferisce l’arte che genera reddito e profitto.

Foto Studio Ferraina

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Giornalista.

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