Roberto Riviello

Arrivai in Toscana nel 1974 perché allora l’Università della Basilicata non esisteva ancora. Quasi tutti i miei compagni di liceo andarono a studiare a Napoli o a Roma, mentre io scelsi Firenze perché me n’ero innamorato quando, un paio di anni prima, vi avevo soggiornato per alcuni giorni insieme a un amico, nell’Ostello della gioventù a Fiesole.

Non sapevo niente dell’Università di Firenze, ma sapevo che volevo studiare filosofia ed ero certo che quella città sarebbe stato il posto ideale per poterlo fare. E a distanza di molti anni devo dire che non mi ero sbagliato: perché la facoltà di filosofia allora si trovava al Pellegrino, una delle colline più belle da cui si gode una vista incantevole, e perché lì ho conosciuto professori bravissimi che non dimenticherò mai.

Ma se la mattina e talvolta anche il pomeriggio lo trascorrevo nelle aule a leggere e discutere i testi dei filosofi classici o contemporanei, e nelle pause andavo a camminare lungo il belvedere o a chiacchierare con i colleghi nel giardino del Pellegrino, il resto della giornata lo passavo in un quartiere storico “diladdarno”, molto popolare e pieno di vita: San Frediano, il quartiere celebrato dal libro di Vasco Pratolini e dal film che poi ne trasse Valerio Zurlini.

A San Frediano, e precisamente in via di Camaldoli, poco distante dalla chiesa di Santa Maria del Carmine, avevo trovato una sistemazione in un appartamento in cui già vivevano degli studenti di filosofia e dove si era resa disponibile una stanza. Era un appartamento davvero “popolare”, ma le stanze erano spaziose e la cucina sufficientemente spaziosa per starci tutti a cenare intorno a un tavolaccio di legno scuro: noi abitanti della casa e in più quelli che capitavano quasi tutte le sere.

È stato in quella casa che ho imparato a cucinare: attività quasi sempre sconosciuta a un giovane maschio di una normale famiglia meridionale, e che poi mi è tornata utile nel corso della vita almeno tanto quanto la laurea. Se la cena la facevamo a casa, il pranzo era alla mensa universitaria di via San Gallo dove, però, si mangiava solo dopo aver fatto una lunga fila perché ci andavano gli studenti di quasi tutte le facoltà. Di quella mensa non ho memoria del cibo, ma solo del chiasso e dell’allegria generale. Così, quando volevamo pranzare con più calma – e questo accadeva soprattutto la domenica -, andavamo in trattoria.

La mia preferita si trovava in Borgo San Frediano e si chiamava “Sabatino”. Era un posto incantevole, perché si mangiava bene come a casa, si spendeva davvero poco (se non m’inganna la memoria si pranzava con due o tremila lire) e le due giovani signore che servivano ai tavoli ci trattavano più che cortesemente, direi affettuosamente come fossero delle sorelle maggiori.

Ma la gentilezza e la cordialità non erano una prerogativa solo della trattoria Sabatino. A quei tempi gli abitanti del quartiere, che erano per lo più artigiani perché San Frediano era pieno di botteghe operose, erano tutti a quel modo. E verso di noi che eravamo studenti universitari, un po’ capelloni e con gli occhialini alla John Lennon, forse provavano una certa riverenza, che però non si traduceva in diffidenza bensì in curiosità. Quando entravamo in un bar o nella Casa del popolo, qualcuno veniva sempre a fare due chiacchiere e ci chiedeva cosa studiavamo e cosa saremmo voluti diventare. L’università per loro doveva essere un mondo lontano, misterioso, irraggiungibile; e probabilmente si chiedevano come mai noi si fosse andati ad abitare a San Frediano tra semplici operai e artigiani.

La verità è che noi amavamo quella casa in via di Camaldoli, da cui sentivamo i rumori metallici del fabbro, e che ci piaceva lo spirito autenticamente fiorentino del quartiere, non ancora invaso dal turismo di massa e non ancora snaturato da tutti quei negozi e pizzerie e ristoranti esotici che allora iniziavano ad aprire tra piazza del Duomo e piazza della Signoria.

Se al Pellegrino respiravamo l’aria raffinata culturalmente e fin troppo cerebrale della facoltà di filosofia, a San Frediano ci immergevamo nell’umanità viva e generosa della Firenze popolare. È tra questi due poli che ho trascorso quattro anni indimenticabili, forse i più belli della mia vita. Sono stato fortunato, perché ho potuto farlo grazie ai miei genitori; e perché quel primo innamoramento di Firenze non si è rivelato una infatuazione passeggera. Non a caso, a distanza di quasi cinquant’anni, vivo ancora in Toscana.

Roberto Riviello

 

Foto: Progetto-oltrarno.it

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1 Comment

  1. E dove lo vuol trovare un posto più bello di Firenze. Se lo lasci dire da uno che nella vita ha visto più modo di una rondine (anche se, poi, i casi della vita l’hanno portato a risiedere altrove, ma non troppo distante)

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