Il caso è qualcosa di occasionale o parte di un disegno imperscrutabile all’inizio e poi più chiaro nello scorrere dei giorni? Il quesito mi si è riproposto nei giorni scorsi dopo un fatterello simpatico. Da un po’ di tempo sulla mia posta elettronica arrivavano delle e-mail da parte di una fantomatica “SPAM_Comunicazione”. Dopo averle eliminate per un po’ di tempo decisi, un giorno, di leggerne una. Si delineò un invito per un evento per ”Un mercoledi da salmoni”. Il riferimento al famoso film di John Milius dei surfisti incalliti era evidente e mi colpì facendomi comprendere che ero di fronte a dei burloni intelligenti. Siccome proponevano una serata a prezzi stracciati con tanto di cibo, monologo comico e musica da ballo, decisi di aderire coinvolgendo il mio compagno di merende arnesche Beppe Capuano, e il musicista Cosimo Acquaviva che a volte ci segue. Altri si negarono ma credo che dopo avere letto questa cronaca si ricrederanno.

Dopo un periglioso (si fa per dire) cammino ci trovammo in un ampio capannone disperso nell’ubertosa campagna lucchese prospiciente il laborioso paesino di Porcari, in mezzo a gente accogliente e musica di quelle “ganze abbestia”. Scoperto che i gestori erano addirittura dei provetti ballerini di alto livello e che giravano nel salone artisti a bizzeffe, io e Beppe ci ricordammo di essere dei giornalisti e volemmo saperne di più. Lui sul comico che seguiva le tracce di Daniele Luttazzi, la cui intervista è già stata pubblicata. Io, invece, scoperto il capo della baracca lo seguii nel suo studio affinché mi erudisse sulla situazione nella quale c’eravamo imbarcati. Vi propongo la nostra chiacchierata…

Si presenti…
“Sono Roberto Castello, direttore artistico di Aldes, una compagnia di danza contemporanea che esiste dal 1993 con sede operativa a Porcari ma legale in quel di Lucca”.

Da quando siete in questo capannone?
“Dal 2012. Prima siamo stati quattro anni a Capannori e poi abbiamo deciso di migrare in questo posto, a Porcari, in via Don Minzoni, che ha un suo fascino. Infatti è vicinissimo alla stazione e questo è utile perché abbiamo costantemente artisti in residenza, o artisti prodotti da noi o che vengono a portare i loro lavori, provenienti da altre parti che possono così raggiungerci facilmente. Abbiamo una foresteria in paese che ha parecchi posti letto ed è in grado di accogliere compagnie non piccolissime. Qui abbiamo due sale, di cui una più allestita per spettacoli, nelle quali facciamo prove, allestimenti, e qualche volta organizziamo qualche serata”.

Organizzate corsi di danza?
“No, l’ultima volta lo abbiamo organizzato quattro anni. Non è un nostro obiettivo. Noi siamo una compagnia di produzione di spettacoli che vendiamo in Italia, Europa e nel mondo a seconda delle produzioni e delle circostanze”.

Lei, Roberto, che tipo di formazione ha avuto per arrivare a ricoprire questo ruolo?
“Caotica, com’è giusto che sia. Sono arrivato alla danza a 19 anni e ai miei tempi, sono nato nel 1960, per quelli della mia età non c’era speranza”.

Dove viveva all’epoca?
“A Torino, sono di lì, e chiaramente ero troppo vecchio per recuperare il distacco tecnico. Prima avevo fatto mille altre cose, studiato musica classica, suonato musica non classica, scattato fotografie. Insomma, avevo fatto molte esperienze di vario tipo, perché sono molto curioso. Poi ho incontrato le persone giuste che mi hanno fatto vedere qualcosa che mi ha interessato molto riguardante il campo della danza moderna. Qui il mio handicap tecnico poteva non essere così rilevante, mentre il mio bagaglio di esperienze artistiche precedenti al periodo in cui ho cominciato a frequentare assiduamente le sale di danza poteva, al contrario, essere determinante e utile”.

In effetti, 19 anni sono un‘età elevata per iniziare una nuova disciplina artistica come la danza…
“Il corpo, a quell’età, è formato e non gli puoi più chiedere molto. Le articolazioni e i muscoli hanno preso la loro forma e non si può chiedere tanto al fisico. Trovo, invece, molto interessante esprimere una visione del mondo e un pensiero attraverso la danza, non m’interessa il numero di piroette che si fanno in scena ma l’idea che si vuole esprimere”.

I suoi coreografi di riferimento?
“La mia grande maestra, la persona cui devo le principali scelte della mia vita, è Carolyn Carlson, con cui ho lavorato quattro anni, e tanti colleghi che stimo e apprezzo molto. Potrei citare anche Pina Bausch, conosciuta negli anni della formazione, lei e Carolyn, nei primi anni ‘80, erano per gli europei, i principali punti di riferimento. Ho anche molti riferimenti teatrali di quel periodo, come il teatro polacco degli anni 70”.

Grotowski…
“Certo, ma anche Andrzej Waida, Kantor, tutto quella forma di teatro che non aveva al centro il verbo”.

Quante produzioni avete realizzato?
“Non le ho mai contate.  in trent’anni saranno state cinquanta, sessanta, ci sono state cose varie, da minuscole a più ampie e articolate, ma non m’interessa contarle”.

Ci parli delle ultime. Ho sentito dire, poco fa, in sala, che una delle vostre è stata selezionata per un premio nazionale prestigioso…
“L’ultima che ha avuto visibilità è l’Inferno, che è nella terna degli spettacoli papabili tra i premi Ubu, il massimo in Italia per il teatro, come miglior spettacolo nazionale di danza dell’anno”.

In questo spettacolo quanti sono coinvolti?
“Sette persone, sei danzatori più una figura importante”.

Non ha che fare con l’inferno dantesco nell’anno della ricorrenza?
“Per l’amor del cielo no, ho un’idiosincrasia per le ricorrenze. Se avessi saputo che era il settecentesimo anniversario della morte di Dante non lo avrei realizzato”.

Il vostro inferno, invece, di cosa parla?
“È  nato molti anni prima e afferma che l’inferno non è un luogo particolare, distante, ma ce lo portiamo dietro tutti i giorni ed è molto simile al paradiso, entrambi possono essere belli e divertenti”.

I prossimi spettacoli che metterete in scena?
“Gli ultimi giorni di novembre e di primi di dicembre saremo in Piemonte per un breve tour che tocca Vercelli, Ovada ed Asti. Dopodiché, il 13 dicembre saremo al Teatro del Giglio a Lucca con ‘Mbira’, un lavoro sull’Africa che parla di come gli europei guardano all’Africa usando occhiali sbagliati. Il 16 lo porteremo al Teatro dell’Arte di Lastra a Signa per riprenderlo nella prossima primavera”.

Ci dica qualcosa in più su questo Mbira?
È una parola Shona intorno alla quale s’intrecciano tante storie che parlano dell’Africa e rivelano quanto poco o niente ne sappiamo e quando parliamo di quel continente utilizziamo, invece, immagini stereotipate o falsi pregiudizi. Potremmo definirlo un concerto di danza, musica e parole che combina partiture e improvvisazioni. Le musiche sono di Marco Zanotti e Zam Moustapha Dembélé che suonano percussioni limba, kora, tamanì ,balafon, ed usano al voce. I testi, invece, sono di Roberto Sarti, Andrea Cosentino e miei, che ho curato anche le coreografie e la regia, oltre ad andare in scena con Giselda Ranieri e Ilenia Romano, che danzano e usano la voce. Questa produzione è stata realizzata col sostegno del MIBAC, Regione Toscana e Romaeuropa Festival. Voglio ricordare anche la rivista Nigrizia tra i media partner, e ringraziare la Cooperativa sociale Odissea”.

Sospetto che quella sera sarò al Giglio e non da solo. Scendiamo nel profondo, si fa per dire. Cos’è per lei la danza?
“Domanda che mi mette in difficoltà, ma ci proverò. La danza non esiste è una categoria merceologica che non so chi e quando hanno inventato ma la danza è il teatro”.

Lei, insomma, non è per la divisione tra tipologie artistiche?
“Assolutamente no. Nessuno al mondo è in grado di porre un confine preciso tra la danza e la prosa perché non esiste.”

Parliamo di teatro-danza allora?
“Nemmeno. Questa è’ una definizione giornalistica che non significa niente. E’ stato coniata per la compagnia che ho fondato insieme ad altri nel 1984, Sosta Palmizi, e che lasciai nel 1990.”

No, davvero? Ricordo di averla vista ed apprezzata a Pontedera anni fa, che coincidenza!

“Già, per il termine ‘teatrodanza’ la critica italiana prese due termini relativi al teatro di Pina Baush, sintetizzandoli appunto in un uno solo che non significa niente. C’è l’arte in genere, che per me è importante.”

Interessante concetto che merita un approfondimento. Grazie Roberto, e quindi non buona danza ma..
“Buona vita, buona arte!”

Perfetto, e cosi sia.

La serata si conclude insolitamente presto perché i padroni di casa, Roberto Castello in testa, si rivelano molto rispettosi dei vicini, così ce ne andiamo senza aver compreso se eravamo finiti in quel luogo così interessante per qualche, ancora oscuro, progetto del destino, oppure solo per una distrazione del fato, che anche lui ha i suoi anni e qualche volta fallisce.

Ai posteri, ai posteri! Dè, a provà!

Guido Martinelli

 

 

 

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