–  Ilaria Clara Urciuoli

Forme primitive assemblate a crearne di nuove più o meno complesse, figure essenziali in cui ritrovare l’umano: sono loro, insieme al loro creatore, a guidarci in un percorso che è un lento immergersi in una realtà altra, un graduale viaggio che inizia forse ancora prima di varcare il non-cancello del giardino, che inizia guidando dalla città – qualunque città cui apparteniamo – al cuore agricolo della Toscana, a quel fondale prosciugato e fertile dell’antico lago Prile che faceva da mare per gli etruschi di Roselle e Vetulonia.

È solo il navigatore che può guidarci lungo questi canali d’irrigazione per auto, nelle strade tra i campi che si ripetono uguali agli occhi del cittadino distratto che ha così la possibilità di abituare lo sguardo a cercare, a non essere schiacciato da eterni input che si rincorrono tra loro e ci fanno perennemente in ritardo. Qui, dove pure la natura ha ceduto il passo all’uomo, dove ciò che vediamo non è paesaggio naturale ma antropico, hanno casa le sculture di un artista e bio-architetto. Lui è Rodolfo Lacquaniti e il luogo è l’entroterra di Castiglione della Pescaia dove prende vita “Viaggio di Ritorno”, un giardino evocativo, ironico, fiabesco, storico, allegorico, onirico, di impegno civile e ambientale, di riflessione, di silenzio, di fiducia e speranza, di ascolto.

Tanti sono gli aggettivi, le parole chiave che, procedendo nella visita, si fermano dentro di noi; possiamo dire che tanti sono i piani di lettura dell’esperienza che Lacquaniti ci invita a fare. Su tutti però un concetto (che è una prospettiva) ha la precedenza perché parte di un intento programmatico dell’autore: il riuso. Vite su vite si accavallano negli oggetti del giardino dove tutto ha più storie da raccontare. Il Cubo, che ora suona alla brezza e accoglie tanto il muoversi frastagliato dell’acqua raccolta quanto i raggi filtrati del sole, ci racconta di lunghi filari di pomodori irrigati mentre i Guerrieri del vento erano prima operai addetti al raffreddamento del cotto.

In questa chiave il giardino svela di sé una natura che viaggia tra storia locale e industriale: troviamo cerchiature per fare le ruote dei trattori e tubi innocenti, scheletri di serre, fuscelle della ricotta e reti di pescatori che qui si affacciano al contemporaneo e ne prendono parte per ricordarci che lo scarto ha un peso e un volume che il mondo deve poter integrare per non venirne distrutto, che questo comprare e buttare via non è un gesto da fare con la superficialità che spesso ci contraddistingue. Questi oggetti ci spingono a interrogarci su come possiamo trovare vite più sostenibili, vestire nel nostro quotidiano abitudini più corrette nei confronti del mondo e degli altri. Ed ecco allora un suggerimento che ci induce a considerare l’uomo non più centro dell’universo ma in relazione con esso, non più figlio preferito delle divinità che forse ci governano, padrone e gestore di una realtà offerta, ma in ascolto, parte di un tutto che muta al nostro mutare.

L’attenzione a questo tema ha portato Lacquaniti a denunciare nel 2018, alla Biennale di Venezia, l’ipocrisia che si consuma nell’arte, mondo in cui l’adesione a un principio di sostenibilità passa spesso attraverso opere dal forte impatto ambientale. Sempre sviluppando questo punto l’artista, che anche per formazione mostra attenzione alle risorse della natura, ha ideato e realizzato la Biennale dello scarto, manifestazione di cui è in corso la seconda edizione e che vede la presenza di istallazioni non impattanti sull’ambiente in alcuni luoghi salienti di Grosseto e Castiglione della Pescaia.

La riflessione sul riuso si dipana inevitabilmente in due direzioni e se da un lato riflettiamo sul valore della storia (che è anche racconto di identità e di appartenenze, di ideologie e di speranze e investimenti, di epoche diverse dominate da materiali diversi dalla plastica) dall’altra percepiamo il valore insito di un ritorno all’essenziale che corrisponde a un forse illusorio dilatarsi del tempo. Camminando ognuno troverà opere che sapranno comunicare con maggior forza, la storia che saprà conquistarlo più delle altre: che sia la comunità circolare della Piccola Russia che ascoltava Radio Praga, o la sfera di luce con i suoi vetri e monili, o ancora una balena di lamiera che contiene il segreto di una preistoria tecnologica o un’arca di Noè con un padrone di casa che sembra volersi lasciar andare all’ignoto.

Oppure potrebbe essere una formica gigante che lentamente muore nel tubo che le dà corpo ma che, con il tempo, perde forma o il ragno che avvolge e sostiene la donna gravida (opera molto diversa dalle altre presenti nel giardino). O ancora potrebbe essere invece un letto con un cuscino di lamiera di aereo, una piramide che ci fa semi di un silos da spingere verso l’alto, un treno dalle linee essenziali per andare oltre.

Si comprende lungo il percorso il viaggio fatto dall’artista che ha lasciato Firenze per venire in Maremma, che ha lasciato la città con le sue ricchezze e i suoi orpelli per arrivare dove la natura domina e parla, dove c’è il silenzio e le lucciole – lui si fa testimone – non sono ancora tutte scomparse. Ciò che Lacquaniti ci sta raccontando attraverso le sculture, le parole e le musiche scelte per accompagnarci, attraverso i suoi ulivi è la possibilità di una scelta che ci spaventa. Cambiare vita, scegliere di ridurre lo spreco, di riconnettersi a quel pacchetto di energie fornitoci alla nascita che tendiamo a disperdere persi in una vita che non ci appartiene.

Rodolfo Lacquaniti sembra invece aver trovato una dimensione che gli permetta, pur osservando le tante macchie che si porta dietro il genere umano, di non perdere la fiducia in questo essere fragile che può però cambiare rotta, non lasciarsi vincere dalla corrente di una storia già avviata, mostrarsi più forte.

Ma segreta, nascosta all’occhio dell’avventore, è una delle opere più intense del giardino, un’opera immersiva che accoglie il visitatore giunto al termine del percorso: è un’umanità varia, colpita da frecce a volte, altre solida e fiera, altre ancora portatrice in sé di segni, quasi sempre di sogni. Sono spose nere, cavalieri erranti e forse definitivamente persi, uomini stolidi eppure presenti. È un mondo vario che commuove e che ti fa sentire accolto. Regale ognuno, ognuno con la sua eleganza fatta di nobili stracci, di diademi-lampadine, di corone di filo spinato, di collane-soffioni di doccia su di lunghi abiti-reti di pescatori.

Qui singolo e comunità si confondono, si perde il confine tra individuo e collettività perché è nella relazione che si realizza la personalità di ognuno (con le sue fragilità e ricchezze, le unicità che ci caratterizzano) e acquista senso e bellezza il genere. È un’umanità, la nostra, che qui si specchia.

Ilaria Clara Urciuoli

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