Ilaria Clara Urciuoli

Passare un giorno accanto al Duomo, naso all’insù, occhio abbastanza sveglio ma non troppo svelto; passare un giorno accanto al Duomo e accorgersi della ricchezza sospesa a mezz’aria, dove lo sguardo arriva appena, dove l’insieme toglie spazio e vita autonoma al dettaglio, dove l’armonia vince sulla maestria del particolare; passare un giorno accanto al Duomo e, vedendo questo, realizzare che quel giorno non è un giorno come tanti ma il compleanno di quel colosso che pure fu bambino-cantiere tanto a lungo. Ecco: oggi è l’8 settembre.

8 settembre 1296: un colpo di fantasia cancella i troppi stranieri e residenti, le stoffe acriliche, la plastica, i troppi palazzi oggi visibili per una zona tanto vicina a quella del Cafaggio (nome di origine longobarda che richiama l’immagine del bosco); un colpo di fantasia cancella cellulari e fotocamere, le pur rade auto che da lì passano e il troppo che ora ci si trova intorno. Immaginiamo operai intenti a portare argani, cavi, carrucole, l’olio di gomito e qualche ferito… che sui cantieri ahimé prima o poi accade. Ma intanto si posa la prima pietra e il progetto ha inizio.

Una spallata involontaria e un sorry mi portano alla realtà e per fuggire l’eccessivo caos volto l’angolo entrando in Via dello Studio. Improvvisamente – tum – uno scalpello picchia il marmo, – ta ta ta ta ta – un altro solletica e ruga appena la pelle liscia di un bassorilievo. Arrivo nella Bottega di restauro dell’Opera del Duomo. Statue, colonne, intarsi sono visibili accanto alle mani che gli hanno dato forma mentre ci accoglie Claudio Marcelli, restauratore, che ci introduce a questo luogo e ai suoi strumenti, alla sua storia e al suo know-how.

Quel luogo, come lo stesso Duomo, nasceva 726 anni fa, per costruire prima, per conservare poi. A coloro che ammirati osservano le statue delle facciate, le sue predelle, i tanti decori marmorei Claudio potrebbe dire che stanno in realtà ammirando i loro lavori, quelli suoi e dei suoi predecessori dal momento che, copie perfette, quegli elementi decorativi sono figli di tempi più recenti (fine anni Sessanta, inizio anni Settanta) mentre gli originali sono conservati nelle sale del Museo dell’Opera del Duomo.

“È un lavoro che non si ripete mai uguale il nostro” – ci racconta Claudio. “Il lavoro di restauro si realizza sia sui cantieri che in laboratorio ed è forse proprio in questo luogo che viviamo l’aspetto più emozionante del nostro operare: non molto tempo fa abbiamo restaurato le statue di Donatello. Erano opere in buono stato di conservazione e già musealizzate per cui dopo aver realizzato foto, rilevazioni e analisi abbiamo provveduto per lo più alla rimozione, con tecnologia laser, delle croste nere dovute allo smog”. Più complessi altri lavori dove le piogge acide hanno intaccato il marmo corrompendolo.

Il laboratorio ben presto si riempie di curiosi e il gran vociare diventa la colonna sonora del nostro sguardo che spazia nella sala. Sul fondo, assorte, le tre statue realizzate a mano dai restauratori-scalpellini, le copie di quelle presenti sulla facciata ottocentesca del Duomo raffiguranti Papa Celestino I, Papa Gregorio VII e Papa Leone Magno. Saranno queste copie a sostituire gli originali attualmente in restauro e in futuro musealizzati.

Specializzati nel restauro di opere marmoree, di questi artigiani è stato anche l’onere e l’onore di mantenere giovani le formelle del campanile. “Un lavoro che ci ha impegnato per due o tre mesi a pezzo”. In previsione del cambio generazionale che nel giro di pochi anni verrà a realizzarsi entrano nella bottega i giovani del Centro Europeo di Restauro iscritti all’ultimo dei suoi corsi triennali creati per formare tecnici del restauro esperti nel lavoro su e con materiali lapidei, musivi e derivati.

“Spero che lavori come questo resistano nel tempo. Le macchine non possono sostituire l’uomo, certamente sono di grande aiuto ma la mano di un artigiano, le sue conoscenze sono un bene da tramandare” ci racconta Matteo Marazita, uno degli allievi della scuola. “La cosa più incredibile, più emozionante per me è vedere la cura del dettaglio a 60 metri di altezza, dettagli che dal basso non si possono notare ma che sono dichiarazione d’amore dell’artista per il suo lavoro”.

Ilaria Clara Urciuoli

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