Paolo Lazzari

Nel 1929 l’Europa è avviluppata da una coltre di gelo. Spesse correnti di aria fredda si incrociano determinando nevicate generose che velano come un balsamo i nervi scoperti delle città. L’Italia, malgrado il cuscinetto dei placidi venti mediterranei da una parte e la barriera fisica delle Alpi al lato opposto, non riesce ad uscirne indenne. Così accade che anche la Toscana risulti avvinta, ovattata e completamente ibernata, a livelli inediti da queste parti. Una città viene particolarmente trafitta dalla morsa invernale: Pisa. Il mese meno benevolo è quello di febbraio. La sera dell’11, quando i primi fiocchi iniziano a punteggiare i tetti cittadini, nessuno si aspetta che le dimensioni del fenomeno atmosferico saranno così feroci. Il giorno successivo la neve viene rimpiazzata da una fitta pioggia gelida, come un esercito di centinaia di migliaia di microscopiche stalattiti che punge la città fino ad infilzarla con scrupolosa metodicità.

I pisani sono attoniti, poco avvezzi a fronteggiare situazioni del genere grazie al clima mite che da sempre circuisce la zona. Il peggio però deve ancora arrivare. Chi avesse visto il blockbuster “The day after tomorrow” magari può farsi un’idea più precisa di una città che diventa progressivamente e inesorabilmente un gigantesco freezer a cielo aperto. La mattina del 13 febbraio la neve preme ancora più forsennatamente contro persone e superfici. Raffiche di vento gelido sfregano con cura ogni interstizio e la temperatura crolla verticalmente a meno quattro. A questo punto inizia a consumarsi il pezzo di magia: l’Arno rallenta il suo flusso. La grammatura dell’acqua si fa più consistente. Arrivati a sera, il grande fiume abituato a fluire nel ventre pisano è immobile, come sospeso in un’istantanea senza tempo.

Il ciclone artico non accenna a placarsi. La mattina del 14 febbraio 1929 in piazza dei Miracoli si registrano 40 centimetri di neve: un record semplicemente implausibile da queste parti. Il termometro scende ancora, fino a meno otto gradi. A questo punto dal fiume iniziano ad affiorare scomposti blocchi di ghiaccio che formano un tappeto lucido e, almeno all’apparenza, spesso. Per testarne la consistenza, un gruppo di coraggiosi giovani decide di scendere all’altezza del quartiere delle Piagge, lasciandosi il ponte alla Fortezza alle spalle. I temerari pisani di cognome fanno Vallerini, De Felice, Verona, Bonaventura e Serretti.

L’incoscienza viene premiata: il manto ghiacciato non si crepa e i nostri trovano anche il tempo di far scendere un fotografo per immortalare l’impresa. In breve tempo la voce si diffonde e gli avventurosi diventano eroi. L’evento, del resto, fu di una rarità assoluta: l’ultima volta che l’Arno si era ghiacciato, nel 1168, Pisa era nel bel mezzo del medioevo.

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