Luca Bocci

Negli anni passati all’estero pensavo spesso alla mia Toscana e al fatto che, sebbene certo non abbiamo il monopolio sulla bellezza, nessuno ci batte quando si parla di densità di capolavori naturali o artistici. Non mi credete? Date un’occhiata all’elenco dei patrimoni dell’umanità pubblicato ogni anno dall’Unesco. Nonostante ci siano meno di quattro milioni di toscani la nostra regione ha altrettanti capolavori dell’intero Egitto, certo non un paese normale in fatto di bellezza, storia ed arte.

Non siete ancora convinti? Pensate al fatto che a pochi chilometri da casa mia c’è un paese in collina che da secoli organizza una corsa di cavalli che non ha niente da invidiare al ben più famoso Palio di Siena. Cosa la rende diversa dalle mille altre corse che si tengono in Toscana? Il fatto che si corra la terza settimana di gennaio, che sia una corsa in linea e che sia in salita. ASCOLTA LA STORIA

Il Palio delle Contrade di Buti si tiene ogni anno e vede le sette contrade del paese contendersi un panno di seta dipinto da un’artista locale, proprio come a Siena. Nessuno sa bene quando sia iniziata questa tradizione, ma sicuramente esisteva già nel Cinquecento, poco dopo la sconfitta definitiva di Pisa nella secolare guerra contro Firenze e la demolizione del poderoso castello che per secoli aveva difeso la città della Torre Pendente dalle armate fiorentine.

Nel corso dei secoli si sono accumulate molte tradizioni e particolarità attorno a questa gara, la prima nel calendario di questi eventi in Italia. Nonostante si tenga a pochi chilometri da casa mia, non mi sono mai preso il disturbo di andare a vedere di che si trattava. Ecco perché questa settimana abbiamo deciso di parlarvi di questo palio d’inverno e di cosa lo renda così particolare. Ascoltate l’episodio e saprete tutto quello che c’è da sapere su questa corsa incredibile e sul paese che da cinque secoli la organizza.

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Foto: Comune di Buti

Leggi la storia / Il Palio di Buti

Siamo all’inizio del Cinquecento, pochi anni dopo la vittoria finale di Firenze nella guerra secolare che la vedeva contrapposta a Pisa e Lucca per il predominio sulla valle dell’Arno. Nel 1503 i Medici decisero di regolare i conti con gli odiati pisani, iniziando dal demolire uno dopo l’altro i poderosi castelli che per secoli erano stati l’incubo delle armate fiorentine. Buti passò nel giro di pochi anni da piazzaforte chiave del sistema difensivo della Repubblica di Pisa ad anonimo villaggio di collina, famoso solo per la qualità estrema del proprio olio d’oliva e la maestria degli artigiani locali nel produrre ceste di vimini. 

Una volta partiti i soldati della guarnigione, i contadini furono finalmente liberi di godersi la vita in pace. Oddio, non è che la loro vita fosse tra le più facili. La terra su queste colline va benissimo per gli olivi ma per il resto non è particolarmente fertile. Mezzadri e piccoli proprietari erano costantemente sull’orlo del fallimento, il che spiega perché fossero ansiosi di ottenere un aiutino dall’inquilino del piano di sopra. Ingraziarsi il favore dell’Onnipotente era una questione di vita o di morte, specialmente quando si parlava di cavalli, muli e buoi, fondamentali per il lavoro dei contadini. Non si sa bene quando, ma iniziarono a portarli in paese, di fronte alla chiesa, per farli benedire dal parroco. Non lo facevano in un giorno a caso ma il 17 gennaio, giorno nel quale la Chiesa Cattolica celebra Sant’Antonio Abate, santo patrono degli animali da soma e in generale degli agricoltori, nonché dei mestieri legati ai suddetti animali. Del fatto che il religioso nato in un villaggio sulla riva sinistra del Nilo nel III secolo sia considerato l’inventore del monachesimo cristiano, abbia abbandonato una vita di lussi per dedicarsi completamente alla fede o sia passato a miglior vita alla rispettabilissima età di 106 anni poco importa. Se il santo venuto dal deserto poteva garantire la salute e la fertilità dei propri animali, agli abitanti di Buti bastava ed avanzava. Questa tradizione continuò per decenni, trasformandosi in una festa di paese. Nessuno sa bene quando ma con così tanti animali in piazza fu quasi naturale che i proprietari si mettessero a discutere su chi aveva il bue più forte, il mulo più resistente o il cavallo più veloce. Da qui ad organizzare una corsa estemporanea tra le strade del paese per regolare i conti il passo fu breve. 

Per secoli le cose continuarono così, in maniera spontanea e genuina, come corollario di una celebrazione prevalentemente religiosa, fino a quando, nell’Ottocento, questa festa di paese sembrò cambiare marcia. Secondo gli archivi ufficiali la prima festa di Sant’Antonio con banda musicale, una corsa di cavalli come si deve e parecchi altri eventi si tenne il 14 gennaio 1805 ma fu più una cosa occasionale che un evento regolare. A partire dal 1848, invece, la gara tra i vari allevatori di cavalli locali divenne una presenza costante nel calendario del paese. Per rendere le cose più interessanti, per la prima volta fu messo in palio un premio – niente di straordinario, a dire il vero, dodici zecchini d’oro, controvalore ai nostri tempi più o meno 2500 Euro, ma sicuramente un grosso passo in avanti. Buti, ieri come oggi, non è mai stato considerato un paese particolarmente ricco, il che aprì la porta al problema di ogni sagra: come pagare i conti anno dopo anno senza accumulare troppi debiti.

La soluzione dei butesi fu una sorta di crowdfunding ante litteram. Dopo la raccolta delle olive, ogni coltivatore offriva una giara del proprio olio alla parrocchia, che all’epoca si occupava di organizzare l’evento. Aggiungi qualche donazione di farina dai mugnai locali e la ricetta per un buon panino all’olio era fatta. Il parroco iniziò quindi a chiedere una mano ai fornai e produrre dei panini speciali per la festa, che venivano offerti in cambio di una piccola donazione nei giorni precedenti alla gara. Duemila panini non sembrano tanti ma questi piccoli oboli ed il lavoro dei tanti volontari riuscirono a mantenere viva la tradizione. La gara si è sempre tenuta dopo la benedizione degli animali domestici e una grande mangiata in piazza dove si consumavano enormi quantità di cibo e vino. Tutti in paese partecipavano, tranne i fantini per la gara, per i quali la giornata iniziava molto presto, alle sei del mattino, quando si teneva la “messa dei fantini”.

La corsa pomeridiana vedeva di fronte i migliori cavalli del paese, tirati a lucido per l’occasione prima di lanciarsi al galoppo lungo un percorso in leggera salita, inconsueto per gare del genere. La gara rimase predominio esclusivo degli allevatori locali fino al XX secolo, quando iniziarono a partecipare anche allevatori dei paesi vicini, attirati sia dal premio monetario che dalla pubblicità che una vittoria poteva portare. A rendere la gara butese diversa dalle altre mille corse che si tenevano in Toscana è il fatto che si tratta di una gara in linea, “alla romana”, con il traguardo diverso dalla partenza e che si corra su per una collina, in leggera salita.

Dal 1848 ad oggi, la corsa si è tenuta ogni anno, con pause solo durante le due guerre mondiali, quando la gente onestamente preferiva riservare le proprie preghiere all’Onnipotente a cose un poco più serie. A partire dal 1950, le cose iniziarono a diventare più professionali, con un’escalation in termini di costi ed ingaggi per i fantini, il che convinse diverse stelle del Palio di Siena a viaggiare fino ai Monti Pisani. La pausa più lunga nella storia della corsa avvenne dopo un grave incidente nel 1953, cosa che convinse la parrocchia ad interrompere la gara per ben sette anni. Quello che poteva essere il colpo di grazia per questa antica festa si rivelò la fortuna della corsa butese. Le lunghe discussioni che si tennero in paese portarono alla nascita di un comitato permanente, al coinvolgimento dell’amministrazione comunale e al successo della manifestazione negli ultimi sessant’anni…

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