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Perché “I laureati” è ancora attuale ventisei anni dopo

- Cultura
17 Dicembre 2021

Paolo Lazzari

Lui lo dice netto: dietro la cinepresa non ci vuole proprio stare. Al massimo può definirsi un attore, ma anche su questo bisogna discuterne, perché sarebbe comunque il suo esordio assoluto. Certo, mescolando il mazzo Leonardo può slacciare un sorriso: possiede un paracadute d’affetto di quelli che ti fanno planare dolce, perché la gente conquistata con tutti quelli spettacoli di Cabaret dal finire degli anni Ottanta in avanti mica si dissolverebbe, in caso di fiasco. Eppure il salto mortale è di quelli carpiati, con gli avvitamenti alla ceca e tutti gli spigoli che la cattiva sorte possiede in dotazione. Il braccio che gli corre intorno al collo, tuttavia, lo persuade che è questa la migliore delle vie contemplabili. La voce, ferma e priva di increspature, è quella del produttore Vittorio Cecchi Gori: negli anni ’90 il suo impero cinematografico non conosce soste e se un’idea gli si radica in testa state pur certi che deve andare a finire così.

L’intuizione sarà di quelle squassanti, perché “I laureati” – sì, è del primo film di Leonardo Pieraccioni che stiamo disquisendo – diverrà il secondo maggiore incasso di sempre per un esordiente, secondo soltanto a “Ricomincio da tre” di Massimo Troisi. Alla fine il botteghino recita una cifra sontuosa: 15 miliardi d’incasso, abbastanza per far sgranare gli occhi anche al munifico produttore dell’opera prima.

A riavvolgere il nastro della memoria, a volte, si fanno giri strani. Eppure il percorso è cruciale per comprendere le ragioni intime del successo di 26 anni fa (il film uscì il 22 dicembre 1995, triturando anche la concorrenza dei cinepanettoni) e quelle che, ancora oggi, rendono la pellicola così attuale. Come spesso accade, è il caso a mettersi di traverso per spingere le cose nella direzione che preferisce. Inizialmente il film doveva chiamarsi “Quattro pali e una traversa”, con l’intento di attirare l’attenzione proprio del patron della Fiorentina. Spolverando le cronache del tempo emerge che fu Rita Rusic, allora compagna di Cecchi Gori, ad oscillare il capo in senso affermativo dopo essersi trangugiata la sceneggiatura: “Il titolo deve cambiare, Leonardo deve fare l’attore e il regista”, avrebbe impartito.

Nasce così la tragicomica avventura di quattro bischeri sulla trentina che condividono un appartamento a Firenze e tutto hanno a cui pensare, meno che a finire gli studi e a laurearsi. Nel cast, insieme a Leonardo, spuntano Massimo Ceccherini, Barbara Enrichi, Gianmarco Tognazzi, Rocco Papaleo, Tosca d’Aquino, Alessandro Haber e la star internazionale Maria Grazia Cucinotta, reduce dal successo planetario de “Il postino“. Firenze – con i suoi scorci ed i suoi dedali irresistibili – è il set a cielo aperto di questa commedia agrodolce, anche se non manca qualche sporadica incursione in Versilia. Il copione, buttato giù da Pieraccioni insieme a Giovanni Veronesi (un’accoppiata vincente che farà implodere ogni record con “Il Ciclone” l’anno successivo), è di quelli che filano al ritmo cadenzato di chi, con una venatura malinconica d’ironia, affresca una generazione in apnea, avviluppata da incertezze croniche. Leonardo ha lasciato la moglie dopo una manciata di mesi di matrimonio e ora si ritrova a vivere di nuovo come un ragazzo; Bruno si è iscritto soltanto per prendere le redini dell’impresa di famiglia; Rocco riesce a sfangarla facendo il metronotte e Pino è alla ricerca di un improbabile successo con il cabaret.

Quattro vite come tante (ed è forse la capacità dello spettatore di identificarsi la cifra vincente del film) infilate in una città, i sentimenti che viaggiano a targhe alterne, troppi sogni in sottofondo, un’età di transizione che non aiuta e una denuncia acuta verso una società che non offre sponde salvifiche. Emblematica la scena della sfida con il tovagliolo, con quella fuga dal ristorante che resta interdetta a metà tra la goliardia tipicamente toscana e la metaforica volontà di mettere più distanza possibile tra sé e le responsabilità. Era il dicembre del 1995: qualunque trentenne di oggi direbbe che, in fondo, non è poi cambiato molto.

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