Luca Bocci

Inutile girarci attorno: pochi al mondo sono così innamorati della propria storia come noi toscani. Se c’è chi dice che questo ha rallentato il progresso della nostra terra, questo ha contribuito a mantenere vive tradizioni antichissime. Una delle più affascinanti è l’industria dell’alabastro, viva a Volterra a partire dall’VIII secolo a.C. I fasti del passato sono lontani, ma ci sono ancora dei maestri artigiani che riescono a produrre piccoli e grandi capolavori con questa pietra molto particolare. Delle 52 varianti presenti nelle cave vicine, questi artigiani producono ogni tipo di scultura, dai piccoli souvenir venduti ai turisti alle grandi e costosissime sculture che finiscono nelle collezioni più esclusive del mondo. Usando tecniche di lavorazioni che risalgono all’antichità, questa industria è tuttora una delle più caratteristiche della Toscana. ASCOLTA LA STORIA

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Nel terzo della mia vita passato lontano da questa terra magica e allo stesso tempo profondamente irritante, una delle domande che i foresti mi facevano più spesso riguardava il fatto che noi toscani non riusciamo a non parlare del passato della nostra regione per più di cinque minuti. Le prime volte trovavo questa domanda divertente. Per noi parlare all’infinito delle glorie del passato del posto che ti ha fatto quello che sei è la cosa più naturale del mondo. Insomma, perché mai non dovremmo essere orgogliosi delle cose straordinarie che i tuoi antenati hanno fatto e di come abbiano reso questa terra unica al mondo? Col tempo mi sono reso conto che non tutti condividono questo orgoglio e questa passione per il passato. Mi ci è voluto un pezzo ma alla fine ho capito che in molte altre parti del mondo la gente vive benissimo senza sapere cosa succedeva nella loro città o nella loro regione anche solo 50 anni prima. Dalle nostre parti questo è del tutto impossibile. Non si può scappare dal nostro passato, lo trovi letteralmente ovunque guardi, marchiato a fuoco in ogni mattone e pietra di ogni casa anche nel villaggio più sperduto.

Pensate a quello che succede nella cittadina che mi ha dato i natali, Pontedera, un paesone cresciuto attorno ad una fabbrica, che era già bruttarello anche prima di essere praticamente spianato dai bombardamenti alleati della Seconda Guerra Mondiale. Nonostante questo, chi è nato dentro o fuori alle mura viene chiamato in maniera diversa, pontaderese o pontederese. Sì, le mura cittadine, quelle che rendevano la cittadina uno dei castelli più importanti del Basso Valdarno. Non ve le ricordate? Comprensibile, visto che sono state demolite più di cinque secoli fa, nel 1554, dopo che la popolazione diede rifugio a delle bande di ribelli impegnate nell’eterna guerriglia contro gli occupanti fiorentini. Poco importa, la gente sa benissimo dove erano e si comporta di conseguenza. Il fatto che praticamente tutti i bambini nascano nell’ospedale cittadino, che si trova oltre la ferrovia, ben lontano dalle antiche mura, continua ancora a far discutere. Quando ero più giovane, pensavo che questa ossessione per il passato fosse solo un segno di provincialismo, del terrore che molti avevano verso il futuro e della loro voglia di conservare il conservabile in un mondo che continuava a cambiare troppo in fretta. Ora che ho parecchi giri attorno al sole dietro alle spalle, non me la sento di condannare questi comportamenti. Conoscere il proprio passato è importante. Se non sai niente di quello che è successo prima della tua nascita, come puoi apprezzare le tradizioni che rendono la tua terra quella che è?

Sicuramente negli ultimi decenni si è lavorato poco e male nel diffondere l’amore per la nostra cultura toscana, cosa che ha spianato la strada alla distruzione di molte delle unicità delle nostre città. Nel giro di pochi anni, trattorie che avevano conservato per secoli ricette tipiche sono state rimpiazzate da fast food o kebabbari, botteghe artigiane con alle spalle secoli di esperienza sono state scalzate da negozi in franchising e, in men che non si dica, quei centri storici nei quali riuscivi ancora a percepire il profumo della storia sono diventati uguali a quelli di tante altre città occidentali. Per fortuna in Toscana più che in molte altre regioni, la nostra ossessione per il passato ha consentito a parecchie tradizioni di sopravvivere all’assalto della modernità. Proprio per questo da noi si trovano ancora prodotti tipici del tutto unici, con una storia ricca ed affascinante. Pochi sono più particolari e straordinari delle sculture in alabastro prodotte a Volterra. Questa è la storia di un’industria vecchia di quasi tre millenni.

Diciamo che non è semplice ignorare la presenza di Volterra quando si passa da quelle parti. Abbarbicata ad uno sperone di roccia che domina le colline circostanti, la cittadina si vede da chilometri di distanza. Gabriele D’Annunzio, sempre ansioso di dispensare le sue perle di poesia, la ebbe a definire “città di vento e di macigno”, una definizione che chiunque abbia passato più di cinque minuti a Volterra non potrà che condividere. Il vento, spesso freddo e tagliente, è una presenza costante tra le stradine del centro, tra case e palazzi che talvolta sembrano scolpiti a vivo dalla pietra della montagna. Tutto sembra fatto di pietra, materia prima che viene dalle colline vicine, da cave la cui origine si perde nelle nebbie del tempo. La pietra tipica è di un colore difficilmente definibile, che va dal giallo al grigio, una pietra non troppo antica, visto che all’interno si trovano fossili di ogni genere. Trovarci all’interno delle conchiglie non è una stranezza, ma la normalità. D’altro canto, fino a non molti milioni di anni fa, tutto quello che vedete era sul fondo del Mediterraneo. Sebbene non sia certo una metropoli, l’aria che si respira nel centro storico è piena di gravitas, quasi austera nella sua dignità, come si addice ad una città che è riuscita a sopravvivere ad ogni sorta di assedio e guerre.

Mio padre mi raccontava di come, quando il fronte passò da queste parti, un solo carro tedesco, uno dei temutissimi Tiger della Wehrmacht riuscì a bloccare un’intera divisione alleata. Il comandante del carro, spostandosi rapidamente da postazione a postazione, fece temere agli alleati che un’intera squadra di carri armati presidiasse la città. Temendo una replica del sanguinosissimo assedio di Montecassino, il comandante alleato pensò bene di chiamare un bombardamento aereo, che avrebbe probabilmente spianato l’antica rocca. Un contadino del posto si fece coraggio, passò le linee e riuscì a convincere gli alleati a non bombardare tutto. Grazie al suo coraggio, Volterra riuscì a salvarsi anche stavolta.

Verrebbe da domandarsi cosa convinca questa gente a continuare a vivere qui, su questa roccia aspra sferzata dal vento, isolata da tutto e tutti, lontana da autostrade e linee ferroviarie. Inutile provare a capire, niente in questa terra strana e selvaggia chiamata Val di Cecina ha senso. Magari se ne vanno per qualche tempo ma alla fine tornano sempre qui, tra le proprie colline che hanno perso i metalli secoli fa ma conservato intatto il proprio carattere indomabile. Guardandosi in giro, molte delle sculture che adornano i palazzi patrizi sembrano strane, fuori posto. Invece del marmo di Carrara che domina il resto della Toscana, sono fatte di un materiale molto particolare, che si può trovare solo da queste parti. Questa pietra speciale, dalle proprietà quasi magiche, è talmente strana da aver dato origine a leggende e miti. L’alabastro ha affascinato l’uomo per millenni. Sembrerebbe solido, resistente come il granito ma in realtà è molto più poroso, malleabile, soggetto alle ingiurie del tempo. L’alabastro è strano, a partire dal colore. Può essere bianco, talvolta bianchissimo, il che spiega perché una pelle particolarmente candida ne prenda il nome, ma può essere di ogni colore dell’arcobaleno. Lo stesso nome è causa di più di una discussione tra storici ed esperti. Tradizionalmente si fa risalire al nome di una cittadina in Egitto, Alabastron, dove gli artigiani si erano specializzati nella produzione di piccole anfore da usare per conservare profumi pregiati, ma nessuno può essere sicuro di questa spiegazione. Ai locali non importa molto. L’alabastro è cosa loro, talmente legato al nome di Volterra da esserne diventato il vero simbolo.

La pietra mutevole, dai riflessi cangianti, viene lavorata da queste parti da quasi tremila anni e per gran parte di questo periodo è stata la fonte della ricchezza e della potenza della città. I primi esempi di urne cinerarie in alabastro si trovano a partire dall’VIII secolo avanti Cristo, segno di un’industria che col tempo non avrebbe fatto altro che crescere. Gli Etruschi iniziarono ad usarla perché era semplice da lavorare e perché ne amavano i riflessi. Quando poi si resero conto che le urne volterrane erano parecchio apprezzate da altri popoli europei, gli investimenti iniziarono ad affluire copiosi. Volterra diventò una tra le più potenti città etrusche, nonostante la posizione certo non ideale. A quei tempi, gran parte delle urne erano fatte su commissione ma col crescere dell’industria, si iniziarono a produrre esemplari grezzi, con le varie decorazioni finite ma il volto del defunto ancora da completare, così da ridurre i tempi d’attesa per i clienti. Per diversi secoli gli artigiani del posto furono influenzati pesantemente dallo stile greco ma col tempo iniziarono a definire un proprio stile, cosa che rendeva queste sculture ancora più pregiate. L’inizio della preferenza per l’alabastro bianco, privo di vene o imperfezioni, si fa risalire a quell’epoca. C’è chi dice che l’obiettivo degli artigiani era quello di farlo assomigliare all’avorio, materiale ben più difficile da trovare e quindi costoso. Il trucco funzionò, portando grande ricchezza in questo angolo sperduto della Toscana. Le urne, decorate con pigmenti naturali e l’occasionale, sottilissima foglia d’oro, rimasero popolari per secoli, fino a quando non furono superate dall’evoluzione del costume e dalla crescita del Cristianesimo. Le fondamenta dell’industria dell’alabastro erano comunque state messe e sarebbero sopravvissute anche al crollo dell’Impero Romano d’Occidente. Molte delle tecniche codificate tre millenni fa sono tuttora usate dai mastri artigiani di Volterra.

Al contrario di molte altre pietre, l’alabastro è piuttosto fragile. Questo, secondo molti appassionati, è quello che lo rende così speciale. Le sculture di questo materiale sembrano cambiare, mutare col tempo, come se fossero vive. A seconda di come prende la luce, può sembrare fragile come il vetro o brillante come un gioiello. L’acqua, sebbene molto lentamente, riesce a penetrarne la superficie, cosa che a volte crea effetti luminosi molto particolari. Non c’è modo di prevedere come il tempo potrà influenzare i riflessi di una scultura d’alabastro, molto è dovuto al caso. Da qui a considerarlo un materiale mistico, quasi magico, il passo è breve.

Le stranezze dell’alabastro sono infinite, a partire dal modo nel quale viene estratto dalla terra. L’alabastro si trova in depositi dalla forma ovale, chiamati “arnioni” che possono variare grandemente in peso e volume. Crescono in maniera quasi casuale in precisi strati di rocce gessose a profondità che variano dai 2 ai 300 metri. Il colore e le caratteristiche dell’alabastro sono influenzate pesantemente dalla composizione chimica del terreno nel quale si forma. La trasparenza e il colore sono dovute alle varie intrusioni di altre sostanze chimiche. L’alabastro è una roccia piuttosto soffice, 2.5 sulla scala Mohs – per riferimento, se il talco ha valore uno, il diamante vale 10 in quanto a durezza. Questa malleabilità lo rende facile da estrarre a mano, talvolta con una semplice piccozza. Le cave, quindi, rimangono attive più a lungo ed hanno un impatto ambientale ben inferiore a quello di altre miniere.

Le varietà principali di alabastro sono due: una si trova all’interno di rocce gessose, l’altra in rocce calcaree. Se la prima si trova quasi esclusivamente nella sponda Nord del Mediterraneo, a Volterra e in Spagna, l’altra è molto più comune in Nordafrica e Medio Oriente, tra l’Egitto e la Mesopotamia. I geologi considerano l’alabastro una pietra “giovane”, visto che si è formata tra 26 e 7 milioni di anni fa, quando il solfato di idrogeno delle vicine fonti geotermiche si è fatto strada nel sottosuolo, fino ad incontrare strati di terreno adatti allo scopo. La reazione chimica ha quindi trasformato il calcare in un tipo particolare di gesso, difficile da trovare in altri posti. Le varietà di alabastro sono tantissime, visto che il solfato di idrogeno portava con sé una molteplicità di altri minerali che ne hanno influenzato lo sviluppo. Il colore può variare moltissimo, dal tradizionale bianco avorio quasi traslucido, al grigio, quando cresce vicino all’argilla, al giallo, rosso, quando sono presenti metalli pesanti. Gli esperti hanno classificato 52 varianti di alabastro tra le cave di Volterra: ve ne risparmiamo volentieri l’elenco. Quello che succede quando gli arnioni vengono estratti dal sottosuolo, invece, non è cambiato molto dai tempi degli Etruschi. La lavorazione rimane molto laboriosa ed effettuata principalmente con strumenti a mano da artigiani specializzati che si trovano solo da queste parti. Gli strumenti saranno semplici, ma si tratta comunque di un processo piuttosto complicato, cosa che ha reso necessaria una forte specializzazione. Per passare dalla materia prima alla scultura finita, serve quindi l’intervento di diverse botteghe artigiane, che si concentrano su una fase particolare del processo.

Si parte dai cosiddetti “squadratori”, artigiani che si occupano della produzione dei pezzi “quadrati”, dai quali sarà poi realizzata la scultura. Gli arnioni arrivati dalla cava vengono tagliati con seghe orizzontali in blocchi che vengono poi ridotti di dimensione con altre seghe più sottili, simili a quelle usate dai falegnami per lavorare il legno. Le rifiniture finali vengono fatte con strumenti di precisione, da dischi abrasivi dalle grane sempre più sottili a seghe circolari da tavolo. Un processo laborioso che finisce col generare parecchie polveri e pezzi di scarto, che ultimamente vengono riciclati in maniera ingegnosa. Diversi squadratori hanno infatti iniziato a riciclare gli scarti per realizzare grandi mosaici di alabastro, che stanno crescendo in popolarità tra appassionati e architetti in tutto il mondo. Una maniera ingegnosa per evitare di riempire le discariche e garantirsi un reddito extra. Le placche di alabastro passano quindi alle botteghe dei “tornitori”, dove i maestri iniziano ad abbozzare figure circolari o sferiche usando degli strumenti simili a quelli usati dagli esperti della ceramica per realizzare i vasi. Dopo aver incollato il pezzo alla macchina, l’alabastro viene attentamente inciso con vari strumenti di metalli diversi. Una volta che la forma del pezzo è definita, viene ripulito con carta vetrata ed altri prodotti. La fase più delicata arriva quando si deve staccare l’alabastro dalla macchina. Specialmente quando i pezzi sono piccoli, talvolta la pietra si spezza quando viene usato uno strumento di ferro apposito. L’alabastro quindi passa alla prima fase della decorazione, quella effettuata dai cosiddetti “ornatisti”. Questi artisti dell’ornato usano una molteplicità di strumenti di metallo per realizzare ogni tipo di decorazione, da quelle tradizionali alle più estrose e creative. Le sculture piccole o i soprammobili di minor pregio a questo punto sono pronti per essere messi in vendita.

I pezzi più complicati e costosi hanno bisogno di un passo ulteriore, nel quale entrano in campo i veri artisti, gli “scultori” veri e propri. I creativi dell’industria dell’alabastro talvolta si basano su famose sculture del passato ma spesso danno spazio al proprio estro, riuscendo a creare modelli originali. Ci sono principalmente due scuole di pensiero. Se i “metodici” preferiscono creare dal nulla un modello in gesso da usare come riferimento, gli “estemporanei” non hanno bisogno di questo passaggio intermedio. Come Michelangelo, è il blocco di alabastro che gli comunica la forma finale della scultura. Anche loro, comunque, fanno qualche segno di riferimento sulla pietra prima di iniziare a lavorare l’alabastro. Non tutti gli scultori sono uguali: c’è chi si specializza in figure umane, altri preferiscono gli animali, altri le forme astratte. Tutti passano giorni, talvolta settimane, lavorando ad una singola scultura, il che spiega perché le più grandi possono diventare parecchio costose. Una volta che lo scultore è soddisfatto, può finalmente iniziare l’ultima fase della lavorazione, la pulitura e la lucidatura.

La bellezza dell’alabastro può rivelarsi appieno solo quando è lucidato come si deve. Tradizionalmente si usavano solo materie naturali, da pezze di pelle di squalo disseccate a certe felci che crescono nelle campagne, vicino alle fonti geotermiche, ricchissime di calcare ed altre impurità. In passato questo era il lavoro riservato alle donne volterrane, che passavano ore a ripulire attentamente la pietra e rimuovere ogni residuo di lavorazione. La lucidatura veniva fatta rigorosamente a mano con materiali altrettanto naturali e sostenibili. Si iniziava con un panno ruvido e una pasta fatta con un miscuglio di ossa di bue tritate finemente e combinate con sapone giallo, per poi passare a panni di lana soffice immersi in acqua e polvere di zolfo. Una volta lucidato, il pezzo non era però finito, bisognava “ravvivarlo”, in modo che riacquistasse le caratteristiche originali. Per questo erano state pensate delle madie specializzate, dove veniva introdotta della brace per alzare la temperatura poco alla volta per evitare che l’alabastro si trasformasse in gesso. L’ultima parte della lavorazione serviva per proteggere la scultura dalle intemperie, attraverso l’applicazione di una sostanza conosciuta come “sparmaceto”. Il miscuglio era piuttosto disgustoso e veniva fatto mischiando vaselina, cera bianca e pece greca. Talvolta si applicava più di una volta, fino a quando l’alabastro era finalmente pronto per la consegna, luminoso ed affascinante come merita.

Oggi sono cambiati i materiali ma il processo rimane più o meno lo stesso. La pelle di squalo è stata rimpiazzata dalla carta vetrata, le felci dalla carta ad acqua, lo sparmaceto da un miscuglio di conchiglie tritate e crostacei ma il concetto non è cambiato: l’alabastro deve rimanere luminoso, senza che si “cuocia” e diventi quindi più simile al gesso. Oggi non è molto di moda, ma un tempo era piuttosto comune colorare l’alabastro immergendolo in colori naturali, che penetravano nei pori della roccia poco alla volta. Sarebbe possibile farlo anche oggi, ma la maggior parte dei maestri preferisce lavorare coi colori naturali ed i riflessi della roccia.

In quasi tre millenni di storia, l’industria dell’alabastro volterrano ha conosciuto parecchi alti e bassi ma è riuscita comunque a sopravvivere fino ai nostri giorni. Se nel Medioevo si perdono quasi tutte le tracce di questa lavorazione, la passione per la pietra magica tornò di moda con il Rinascimento, quando veniva usata in molte forme d’arte, quasi tutte legate al culto cattolico. Nel Seicento i volterrani iniziarono a tornare alle origini, rivitalizzando l’industria e realizzando oggetti più piccoli, semplici, facili da produrre e da vendere in giro per la regione. Maestri scultori di prestigio ce n’erano ancora, ma buona parte dei lavoratori era di bassa qualità: impossibile chiedergli di realizzare opere più complicate.

A partire dall’inizio del 1800 le cose iniziarono a cambiare, con la nascita della prima fabbrica moderna dedicata alla lavorazione di questa pietra. Le Officine Inghirami occupavano oltre 120 dipendenti e si erano poste un obiettivo ambizioso: modernizzare le tecniche produttive senza perdere il contatto con la tradizione artistica del territorio. Per riuscirci giunsero ad impiegare scultori e maestri artigiani da tutta Italia, così da migliorare la formazione dei propri dipendenti ed iniziare ad offrire prodotti più complicati al pubblico. Il primo passo fu quello di copiare i capolavori del passato, riproduzioni di quei vasi di epoca etrusca e greca conservati in grande numero nel locale Museo Guarnacci. Il passo successivo fu quello di usare l’alabastro per realizzare dettagli da usare in architettura, più in linea con il gusto Neoclassico che imperava all’epoca. Il successo degli Inghirami fece scuola, tanto che a metà del secolo si contavano ben 14 fabbriche e una moltitudine di botteghe indipendenti a Volterra, tanto da alimentare un nutrito gruppo di venditori ambulanti che passavano da una capitale europea all’altra con i loro pesanti campionari per vendere il frutto dell’ingegnosità toscana. Sculture d’alabastro finirono nelle case degli appassionati di tutto il mondo, America, Giappone ed India incluse.

Il periodo d’oro dell’industria fu la seconda metà dell’Ottocento, quando nuove tecniche di lavorazione iniziarono ad essere introdotte, portando ad una moltiplicazione degli usi per l’alabastro. I primi mosaici iniziarono ad essere offerti, si crearono collaborazioni con fabbriche di mobili, con inserti di alabastro che venivano usati sempre di più in mobili di prestigio. Sul finire del secolo iniziarono a diventare popolari le grandi sculture in alabastro che riproducevano animali, dal classico cavallo alle bestie più esotiche, magari commissionate dopo un viaggio in Oriente o in Africa.

Come tutte le mode, anche quella dell’alabastro finì con lo stufare il pubblico, che iniziò a preferire materiali più moderni. Il primo dopoguerra fornì un assist agli artigiani di Volterra, che provarono a capitalizzare sulla crescente popolarità del movimento dell’Art Deco. L’alabastro si rivelò perfetto per le lampade elettriche multicolori tipiche di quei tempi, facendo vivere all’industria qualche anno di prosperità. La crisi del 29 fu quasi fatale per l’industria, che iniziò a riprendersi nel secondo dopoguerra, quando architetti di grido iniziarono ad usare la pietra nelle proprie creazioni.

L’industria è riuscita a sopravvivere, ma non è che la pallida imitazione di quella dei tempi migliori. I principali difensori di questa tradizione millenaria sono i membri dell’antica cooperativa degli Artieri dell’Alabastro. Sì, artieri, come suggerito dallo stesso D’Annunzio – i maestri dell’alabastro non erano artisti veri ma neanche “semplici” artigiani, erano qualcosa di diverso, “artieri”, in grado di trasformare la pietra in piccole opere d’arte. Fondata nel 1895, la cooperativa ha come missione principale la commercializzazione delle realizzazioni degli ultimi maestri, oltre a ricevere commissioni da clienti da ogni parte del mondo. Sono rimasti solo 27 maestri artieri oggi, uno dei quali ha solo vent’anni. Producono ogni tipo di scultura, dai souvenir che si trovano nel negozio in centro a Volterra alle grandi e costose sculture di cavalli, realizzate con l’alabastro più bianco e puro. Il 90% di questi prodotti sono tuttora venduti all’estero, in gran parte dagli eredi dei venditori ambulanti del Settecento. Architetti e designers continuano a commissionare lavori specifici alla cooperativa ma rimangono sempre delle eccezioni alla regola più che la norma.

Il negozio al piano terra di uno dei palazzi più antichi dell’intera Toscana nella centralissima Piazza dei Priori, risalente al 1208, è uno dei posti migliori per apprezzare questa forma di arte popolare tanto antica quanto legatissima al territorio. A Volterra ci sono musei ad essa dedicata e persino delle botteghe artigiane dove si possono osservare le varie fasi della lavorazione, ma le cose non vanno affatto bene. Molte antiche botteghe hanno abbassato per sempre le loro serrande quando i maestri sono finalmente andati in pensione, senza riuscire a passare la propria esperienza ai giovani. Per il momento c’è ancora qualche apprendista in grado di imparare dagli ultimi maestri e garantire che questa tradizione millenaria sopravviva per almeno un’altra generazione. Dio solo sa se riuscirà a sopravvivere anche a questa ultima crisi. Detto tra di noi, è già un miracolo che sia arrivata fino ai nostri giorni. Tre millenni sono tanti, tantissimi, anche per un popolo così conservatore come quello toscano. Come diceva il Magnifico, “del diman non v’è certezza”.

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Foto: valdelsavaldicecina.it/

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