In pochi anni la sua idea ha riscosso un gran successo a New York: da un locale fra poco ve ne saranno quattro. L’idea di fondo è semplice quanto efficace: offrire pranzi gustosi e salutari, con un ingrediente che è il grande e indiscusso protagonista: l’avocado. Con due soci il toscano Francesco Brachetti (33 anni, al centro nella foto) ha messo in piedi “Avocaderia”, un avocado-bar molto apprezzato di cui si sono occupati anche il New York Times e il network tv Cnbc.

Francesco, da quando ti trovi negli Stati Uniti?
Da metà del 2016.

Come e quando è nata la tua attività?
È stata concepita nell’aprile 2016. Per lavoro mi trovavo a Città del Messico ed ho cominciato a fare dei viaggi a New York per studiare il mercato e cercare possibile location per aprire il locale.

Quanti soci siete?
All’inizio eravamo io e Alessandro Biggi, di Modena, che in quel momento viveva a Seattle dove gestiva un’agenzia di produzione video. Poi abbiamo convinto mio cugino, Alberto Gramigni, architetto, anche se di mestiere gestisce un suo locale a Prato.

Di cosa ti occupavi in Messico?
Analisi dati per l’e-commerce.

Come vi è venuta l’idea dell’avocado?
Vivendo in Messico ho avuto modo di conoscere bene questo frutto, che lì è molto utilizzato ed ha numerose proprietà nutrizionali, si presta alle diete ed è versatile come ingrediente. Abbiamo pensato di proporlo agli americani, puntando soprattutto sui clienti giovani, desiderosi di consumare cibi salutari oltre che gustosi.

Come lo proponete?
In tantissimi modi diversi. Nelle insalatone, coi tacos, nei sandwich e persino gli smoothies (frullati, ndr).

Il cibo che vendete di più?
Le insalate e il bowl, un pasto completo.

Quanti locali avete?
Per ora siamo a due, il primo è quello di Brooklyn, poi un altro a Manhattan. Il terzo avremmo dovuto aprirlo a fine aprile, sempre a Manhattan, poi è arrivata l’emergenza Covid-19 e si è fermato tutto. Siamo in fase di costruzione del quarto locale a Long Island City, nel Queens.

Come stanno andando le cose?
Siamo molto contenti dei primi due anni di attività. Ora, dopo una chiusura forzata di tre mesi, dobbiamo riprenderci. La maggior parte del nostro business è nell’asporto, sia come take-away che nel delivery. Nei locali, comunque, abbiamo anche qualche tavolo. Complessivamente lavorano per noi trenta persone.

Che gusti hanno gli americani?
Amano i sapori più forti rispetto a noi, più piccanti ma non solo. Anche i condimenti, per esempio, se io gli proponessi un’insalata condita con olio extravergine e aceto resterebbero molto delusi. Nello studio e affinamento del menu abbiamo dedicato molto tempo.

Cosa ti manca di più dell’Italia?
Fortunatamente torniamo abbastanza spesso, direi 2-3 volte all’anno. Poi devo dire che, essendo fuori dall’Italia da quasi dieci anni, sono abituato. A New York, tra l’altro, c’è tantissimo, trovi davvero tutto.

Che tipo di clienti avete?
Un po’ di tutti i tipi. A Brooklyn, nella zona di Sunset Park, siamo in una zona piena di uffici e diversi studi con lavori di tipo artistico e di produzione. È una zona urbanistica che è stata riqualificata di recente, una volta c’erano cantieri navali, ora è molto vivace e dinamica.

Il cibo italiano è un must a New York…
Sì, è vero. Tra l’altro ora cominciano a riconoscere e apprezzare anche le sfumature, dalla cucina emiliana a quella siciliana e molte altre. C’è stato un salto di qualità davvero importante in questo senso.

Il piatto più strano che proponete?
Gli smoothies. Concepiti come un qualcosa di dolce, preparati con l’avocado cambiamo molto come consistenza, oltre a mantenere bene il gusto dell’ingrediente.

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