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Strage di Sant’Anna di Stazzema: tra i carnefici anche italiani

- Cultura
4 Agosto 2019

Renato Sacchelli

Fu un’alba tragica quella del 12 agosto 1944 quando, alle prime luci del giorno, a Valdicastello, nel comune di Pietrasanta, arrivarono numerosi autocarri con a bordo centinaia di S.S. in tuta nera, armate fino ai denti. Questi uomini – dalle trecento alle cinquecento unità – appena scesi dai mezzi, in fila indiana, a distanza di pochi passi l’uno dall’altro iniziarono ad arrampicarsi lungo il sentiero per raggiungere Sant’Anna di Stazzema, un piccolo gruppo di case abbarbicate sui monti dell’alta Versilia. Lì si erano rifugiati numerosi sfollati provenienti da Pietrasanta, Forte dei Marmi e altre località della Versilia. C’erano anche persone di Livorno, La Spezia, Piombino, Massa, Genova, Pavia e persino Napoli.

Tra i soldati in marcia furono notati anche uomini camuffati, coi volti parzialmente coperti, sotto l’elmetto, da pezzi di rete di juta. Una donna, disperata, tentò invano di oltrepassare la colonna di S.S. perché voleva raggiungere Sant’Anna, dove si trovavano i suoi figli; fu respinta più volte da un tedesco, che le disse: “Lassù tutti partigiani, tutti kaputt!. Lei non si perse d’animo e provò a salire sul monte, attraversando piane e percorrendo altri sentieri, fino ad arrivare ai Molini, dove il giorno dopo fu trovata morta, con il corpo crivellato dai colpi d’arma da fuoco.

La colonna di S.S. che aveva iniziato a salire verso Sant’Anna, una volta arrivata a Farnocchia si divise in due squadre. In questo modo i tedeschi, attuando una manovra di accerchiamento, giunsero nel paesino da due punti diversi, uno dalla Foce di Còmpito e l’altro appunto da Farnocchia. Per stringere la morsa da Monte Ornato si mosse un’altra colonna di soldati.

Il 20 aprile 2004, al Tribunale militare di La Spezia, nel corso del processo contro dieci ex S.S. che avevano partecipato alla strage, l’imputato Ignaz Alois Lippert dichiarò che la mattina del 12 agosto 1944 gli era stato ordinato di andare a prendere le munizioni per la mitragliatrice, che si trovavano su un autocarro distante circa 500 metri dai soldati. Dato che all’epoca non esisteva alcuna strada carrozzabile per raggiungere sia Farnocchia che S.Anna, appare evidente che la località dove era lasciato l’automezzo militare non poteva che essere la frazione di Mulina di Stazzema. Ed è proprio da lì che iniziò l’orrenda carneficina compiuta dai tedeschi. Ne parlano, con dovizia di particolari, due libri di Giuseppe Vezzoni (“Croci uncinate nel canale” e ”Un prete indifeso in una storia a metà – Don Giuseppe Vangelisti e il suo memoriale”) e diverse pagine dei volumi scritti dal giornalista versiliese Giorgio Giannelli.

Quella mattina del 12 agosto, mentre i tedeschi stavano transitando da Mulina per raggiungere Sant’Anna, furono notati dal parroco don Fiore Menguzzo. Nel vederli avvicinare alla sua chiesa il sacerdote pensò di essere lui il ricercato: saltò da una finestra per fuggire nel bosco. Raggiunto fu ucciso lungo la mulattiera da una scarica di colpi d’arma da fuoco. Subito dopo fu incendiata anche la canonica, dopo che erano stati uccisi anche il padre di don Menguzzo, Antonio, di 65 anni, la sorella Teresa (36 anni), la cognata Claudina Sirocchi (28 anni), le nipotine Colombina Graziella Colombini ed Elena Menguzzo, rispettivamente di 13 anni e di un anno e sei mesi. Dopo aver compiuto questa carneficina i soldati tedeschi continuarono la loro marcia per raggiungere Sant’Anna.

Ma per quale motivo don Fiore Menguzzo e tutti i suoi familiari erano stati uccisi? Il sacerdote era sospettato di tenere rapporti coi partigiani. Si parlò anche di un tentativo da lui effettuato per mediare fra i partigiani e i tedeschi. Di certo era mosso dall’alto magistero sacerdotale che lo aveva portato anche ad accogliere, nella sua parrocchia, i componenti di una pattuglia tedesca attaccata dai partigiani quando questa, il 31 luglio 1944, era salita a Farnocchia per notificare l’ordine di sfollamento alla gente del paese. Prestò le prime cure ai feriti, tanto da ricevere, come segno di riconoscenza, una dichiarazione scritta in tedesco: chiunque l’avesse letta era invitato a rispettare il parroco e la sua famiglia, ritenuta benemerita dell’esercito germanico. Nato a San Benedetto di Cascina (Pi), quando fu ucciso don Fiore aveva ventotto anni. La sua famiglia proveniva dal Trentino Alto Adige. Nel 1942 era stato richiamato alle armi e arruolato come cappellano militare. Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 fu catturato dai tedeschi, che lo avviarono in un campo di concentramento in Germania; da lì era riuscito a tornare a casa.

Nei dintorni di Sant’Anna per un po’ di tempo avevano stazionato i partigiani, astenendosi dal compiere azioni di guerriglia per non compromettere la popolazione, che avrebbe potuto subire, senza colpe, le violente rappresaglie dei tedeschi. Non è da escludere che costoro avessero pensato che la gente del posto e anche gli sfollati (che pativano la fame e stentavano per sopravvivere) potessero essere in qualche modo di aiuto ai partigiani. Sta di fatto che quando i tedeschi intimarono agli abitanti di Sant’Anna di sfollare a Sala Baganza, in provincia di Parma, tutti lasciarono le loro abitazioni per rifugiarsi nelle zone vicine, per poi ritornare a casa quando si diffuse la notizia che il pericolo era scongiurato. Anziché raggiungere Sala Baganza preferirono, dunque, rimanere abbarbicati su quel monte, anche se la vita era molto dura.

Ogni giorno i ragazzi più grandi volgevano lo sguardo in direzione di Pisa, dove i tedeschi avevano fermato l’avanzata delle truppe alleate; dalle cortine fumogene e dall’esplosione delle cannonate cercavano di capire i movimenti del fronte. Ma proprio in quei giorni i tedeschi si prepararono a compiere un’azione d’inaudita violenza contro la pacifica popolazione di Sant’Anna, probabilmente perché convinti, a torto, che la zona fosse piena di partigiani. Intanto il 29 luglio 1944, dopo l’ordine di sfollamento dei tedeschi, il Comando delle “Brigate d’assalto Garibaldi” con un foglio dattiloscritto, visto da molte persone affisso sulla porta della bottega sul piazzale della chiesa di Sant’Anna, sprovvisto di qualsiasi firma, invitava donne, vecchi e bambini a non obbedire all’ordine dei tedeschi, attuando una sorta di resistenza passiva. Gli uomini, invece, erano esortati ad armarsi sia col fucile da caccia che con il forcone. Questo foglio, conservato per lungo tempo da don Evangelisti, alcuni anni dopo fu mostrato da Alderano Vecoli di Capezzano, (che nell’eccidio aveva perduto due figli) a Renato Bonuccelli, autore del libro “Cinquanta anni fa in Versilia”. Quest’ultimo, ancorché piccolo, fu testimone oculare della strage, vedendo trucidata sua mamma e altri suoi stretti familiari.

Si arrivò, così, all’alba del 12 agosto 1944. Quando i soldati con le croci uncinate arrivarono lassù, i partigiani avevano lasciato S. Anna già da diversi giorni. A Valdicastello i tedeschi prima di iniziare a salire verso il paese, imposero con la la forza a diversi uomini di seguirli, per trasportare, caricate sulle spalle, pesanti cassette di munizioni. Con il calcio dei fucili i tedeschi bussavano alle porte delle case, facendo capire di essere pronti anche a uccidere se qualcuno si fosse rifiutato di prestare loro l’aiuto richiesto.

Appena arrivati a Sant’Anna un soldato sparò con la pistola un razzo rosso. Dalla foce di Mosceta e da quella di Compito s’alzarono nel cielo altri due razzi; era il segnale stabilito per dare il via all’attacco. Quando la gente vide arrivare le S.S. così numerose, gli uomini ebbero appena il tempo di fuggire nei boschi vicini; nel paese rimasero soltanto le donne, i vecchi e i bambini. Le donne, impaurite, misero dei tavoli fuori dalle loro case, imbandendoli con pane, acqua e vino da offrire ai tedeschi al momento del loro arrivo.

Renato Bonuccelli racconta che lui e la sua famiglia furono costretti a uscire di casa e spinti a forza, insieme ad altre persone, in una stanza al piano terra di una casa vicina, che venne chiusa dall’esterno. In preda al terrore quei poveretti non sapevano cosa fare. Ad un tratto un soldato ruppe i vetri della finestra e lanciò in mezzo alla stanza due bombe a mano. Improvvisamente la porta fu aperta e così quegli sventurati videro una mitragliatrice pronta a sparare contro di loro. La mamma del piccolo Renato prese subito per mano il suo bambino e gli fece salire la scala di legno per farlo andare al piano superiore. Così facendo gli salvò la vita. Queste furono le sue ultime parole che disse al figlioletto. “Vado a prendere anche la nonna Ida e torno”, ma il bimbo non la vide più apparire. Il piccolo sentì ripetute scariche e forti scoppi di bombe a mano, che fecero sobbalzare il vecchio pavimento, mentre l’aria divenne irrespirabile per la polvere e l’acre odore del fumo. Fu un vero e proprio massacro compiuto anche con i lanciafiamme. Nel vedere accendere questi micidiali ordigni nelle immediate vicinanze di altre case le donne che vi abitavano pensarono che i soldati volessero soltanto bruciare le abitazioni, come avevano fatto a Farnocchia dodici giorni prima, tant’è che iniziarono a tirare fuori i mobili e le masserizie, nel tentativo di salvarle. Ma subito le S.S. mostrarono le loro vere intenzioni, mettendosi a sparare all’impazzata contro la gente incredula che, senza parole, cadeva a terra senza vita. Spararono anche contro le bestie nelle stalle. Non ebbero pietà per nessuno. Un gruppo di persone fu spinto coi calci dei fucili all’interno della chiesa. Su quei poveretti vennero lanciate bombe a mano e scaricati colpi di mitragliatrice. “Kaputt! Kaputt! Tutti kaputt!”, urlavano le S.S., mentre i corpi delle vittime venivano investiti dal fuoco dei lanciafiamme. A una donna incinta sorpresa nella sua casa, fu squartato il ventre e al feto (quasi completo) venne sparato un colpo di fucile alla tempia. Questa visione apparve davanti agli occhi di Elio Toaff, l’unico rabbino partigiano in Versilia, che ebbe modo di constatare di persona gli effetti della strage quando sali a S.Anna dil giorno dopo la carneficina

Nella camera dove quella mamma disperata aveva cercato di nascondere il suo bambino, Renato Bonuccelli vide anche il suo parente, Alfredo Graziani e tre donne; tutti stavano rannicchiati in un angolo per evitare di essere raggiunte dai proiettili provenienti dall’esterno. Sul letto giacevano due donne morte, una era sua nonna Zaira, che probabilmente, dopo essere rimasta ferita all’inizio dell’attacco dei soldati, era riuscita a salire al piano superiore. Alcuni proiettili mandarono in frantumi i vetri della finestra. Quando non si udì più il crepitio delle armi Alfredo Graziani si avvicinò al bambino dicendogli: “Dobbiamo uscire. Sai dove andare?”. “Sì lo so – rispose il piccolo – devo scendere giù nel canalone, dove c’è il mio babbo che si è rifugiato in una grotta con lo zio”. A questo punto l’uomo tolse i mobili che aveva messo sopra la botola e l’aprì. Poi fece le ultime raccomandazioni al bimbo: “Qualunque cosa tu veda, anche la mamma morta, non ti devi fermare, non devi piangere, devi correre in silenzio da tuo padre”. Sceso al piano terra il piccolo Renato vide la stanza piena di tanti corpi senza vita. Riconobbe suo nonno Angelo, in fondo alla scala giaceva sua madre. Il bambino la chiamò e la tocco inutilmente. Poi vide la sua borsa, la prese e fuggì verso il canale. Fuori trovò la strada sbarrata da un lanciafiamme, tornò indietro ed entrò nelle case vicine, per cercare una possibile via di uscita. Morti e sangue dovunque. Non c’era altra soluzione. Si fece coraggio, a fatica passò dietro il lanciafiamme e finalmente corse giù nel canalone. Nel farsi largo fra le alte felci smarrì il sentiero.

A quel punto cominciò a chiamare forte suo padre. Alcuni soldati lo sentirono e si misero a sparare nella sua direzione. Sentì fischiare sulla sua testa le pallottole mentre piccoli ramoscelli spezzati dai proiettili caddero intorno a lui. Finalmente vide tra gli arbusti spuntare suo padre, che gli fece cenno di tacere e di andare da lui. I soldati non udendolo più pensarono di averlo colpito, quindi se ne andarono. Nella grotta il bambino ritrovò suo zio Amerigo e si mise a piangere. Suo padre, credendo che il piccolo avesse fame tentò di confortarlo dicendogli che fra poco sarebbe arrivata la mamma con qualcosa da mangiare. Udite queste parole dagli occhi del bambino uscirono fiumi di lacrime e non riuscì più a parlare. Dopo diverso tempo sentì la voce del nonno, Nello, che chiamava suo padre. Usciti fuori dalla grotta videro l’anziano con la camicia tutta macchiata di sangue. Rinchiuso nella stanza dov’era stata fatta la carneficina era finito sotto un mucchio di cadaveri e, miracolosamente, era rimasto illeso. Alla vista dei superstiti della strage il nonno Nello allargò le braccia e con un filo di voce disse: “Tutti morti. Sono tutti morti.” Il 12 agosto 1944 il bambino Renato Bonuccelli vide uccidere sua madre, Rosa Cesarini Guidi in Bonuccelli, il nonno materno Angelo Guidi; la nonna materna Ida Pierotti nei Guidi, e l’altra nonna Zaira Pierotti nei Bonuccelli.

Furono cento i bambini uccisi; una femminuccia, la creatura più piccola, aveva appena venti giorni. Molte persone finirono bruciate vive insieme ai loro cari. Don Innocenzo Lazzeri, il parroco di Farnocchia che era sfollato nella canonica di Sant’Anna, la mattina del 12 agosto aveva appena finito di celebrare la Santa Messa, quando s’accorse che stavano per arrivare i tedeschi. Al padre, che lo supplicava di fuggire con lui nel bosco, non volle dare ascolto. Forte della fede cristiana che lo animava, si mise in giro per confortare la popolazione. Il fatto di essere sacerdote lo induceva a credere che i tedeschi lo avrebbero rispettato. Forse pensava, con la sua presenza, di poter scongiurare il massacro. Mentre in piedi stava benedicendo i corpi della gente uccisa, fu afferrato da due S.S. che lo trascinarono intorno alla chiesa e al campanile. Quando venne riportato nella piazza, si chinò per benedire il corpicino straziato di un bambino di pochi mesi. Mentre faceva il segno della croce fu crivellato da una scarica di colpi; il suo corpo fu gettato sul rogo, dove bruciò insieme a quelli delle altre vittime trucidate in chiesa. Dietro l’edificio sacro di S. Anna i tedeschi uccisero anche gli otto uomini che avevano portato, fin lassù, le cassette piene di munizioni.

Nel giorno della festa di Santa Chiara alcuni soldati delle S.S. preferirono non rendersi complici di tale barbarie; per questo, anziché partecipare alla carneficina, senza farsi vedere dai commilitoni scaricarono i colpi delle loro mitragliatrici contro alcuni animali, facendo credere di aver partecipato al massacro. In questo modo qualche abitante di Sant’Anna riuscì a salvarsi.

Una donna, Genny Bibolotti Marsili, rinchiusa in una stalla insieme a tanta altra gente disperata e urlante, nascose il suo bambino di sei anni tra due grossi massi di pietra che si trovavano dietro la porta dell’ingresso. Morirono tutti, colpiti dalle raffiche dei fucili mitragliatori e dal fuoco dei lanciafiamme. Soltanto il piccino si salvò. Dal suo nascondiglio la creatura vide la madre, ferita alla testa e grondante sangue, nell’attimo in cui, per distrarre una S.S. al fine di non farle scoprire il figlioletto, lanciò uno zoccolo in faccia al soldato che continuava a sparare contro quelle povere persone già agonizzanti. Il tedesco, sorpreso dalla reazione della donna, reagì sparando contro di essa l’ultima scarica di colpi, poi si allontanò.

Con questo gesto eroico la madre riuscì a salvare la sua creatura che, soltanto dopo otto ore dalla strage, un uomo tirò fuori dalla stalla. Il bambino, annerito dal fumo, aveva sul corpo ustioni di terzo grado, riportate per essere rimasto vicino alla porta mentre questa bruciava. Per guarire ebbe bisogno di cure mediche che durarono diciotto mesi. Scamparono dalla strage anche poche persone che, rimaste illese sotto i corpi dei familiari uccisi, finsero di essere morte insieme a loro. Quando le S.S. ridiscesero a valle, a Sant’Anna rimasero i resti di 560 persone, tra bambini, anziani e donne, spietatamente massacrati da belve feroci con sembianze umane.

Il primo a raggiungere S. Anna il pomeriggio dello stesso giorno in cui avvenne la strage, con il fumo che ancora si alzava dalle case incendiate, nel vano tentativo di portare aiuto, fu il parroco di La Culla, don Giuseppe Vangelisti, accompagnato da alcuni parrocchiani. Arrivato sulla piazza della chiesa il gruppetto vide davanti ai loro i resti di ossa umane bruciate. Dalla conta dei teschi risultò che le vittime lì trucidate erano 132. Altri 17 resti furono contati al Colle; 22 a Coletti, 17 lungo il sentiero che da Coletti va al Molino e 3 nel bosco. Per le persone bruciate dentro le case non fu possibile neppure conoscere il numero approssimativo. Fu don Giuseppe Vangelisti a recarsi presso il Comando tedesco da cui ottenne l’autorizzazione per la sepoltura dei resti delle vittime.

Quella del 12 agosto 1944 fu la più grande strage di innocenti compiuta dalle S.S. in Italia durante la Seconda guerra mondiale, superiore anche a quella di Marzabotto, che nel computo somma le vittime di diverse località. Raccontata sui libri di Giorgio Giannelli, Lodovico Gierut, Renato Bonuccelli e Giuseppe Vezzoni, e su diversi articoli pubblicati sul periodico Versilia Oggi e altri quotidiani nazionali, dove si parla anche delle testimonianze dei pochi sopravvissuti alla spaventosa strage degli innocenti, l’orrore che ancora oggi suscita è immenso.

Dopo diversi decenni, quando finalmente si aprirono gli “armadi della vergogna” e fu possibile prendere visione dei documenti relativi alla strage di Sant’Anna, si apprese che essa fu compiuta dalla 5 ^ Compagnia del II Btl del 35° Rgt. della 16^ S.S. Grenadier Division, composta da giovanissimi volontari, dai 16 ai 20 anni, al comando del capitano austriaco Anton Galler e non quindi dal maggiore Walter Reder, sospettato per lungo tempo di avere partecipato e diretto l’azione criminale. Il 31 ottobre 1951 il Tribunale militare di Bologna condannava all’ergastolo e alla degradazione militare il maggiore Walter Reder, per le stragi compiute nella provincia di Bologna ed in altre località, e per l’uccisione, a Bardine di S. Terenzo (Lunigiana) dei 53 civili rastrellati nella zona di Valdicastello il 12 agosto 1944, mentre lo assolveva “per insufficienza di prove” dall’accusa di aver preso parte alla strage di Sant’Anna. Il famigerato capitano Galler, che dopo la guerra andò a lavorare in una miniera d’uranio in Canada, morì in Spagna nel 1995, impunito. Fu lui che, mentendo spudoratamente, comunicò ai propri superiori che il 12 agosto 1944 a Sant’Anna di Stazzema il suo reparto aveva ucciso 270 partigiani. Una terribile strage di civili spacciata per un’operazione militare.

Con la sentenza del Tribunale Militare di La Spezia del 22 giugno 2005 fu comminata la pena dell’ergastolo a dieci ex S.S. colpevoli di avere partecipato alla strage. Dalla sentenza emerse che nessuna causa concorse a determinare un’azione di rappresaglia nei confronti della popolazione di Sant’Anna. Fu “solo” uno sterminio di cittadini inermi. Non emersero prove che qualche italiano aderente alla Rsi vi avesse partecipato indossando la divisa delle S. S. anche se, nell’immediato dopoguerra, erano circolate voci, dagli scampati alla strage, secondo cui tra i carnefici vi sarebbe stato qualche fascista della zona. Circolarono anche dei nomi, ma nel corso del processo gli imputati ascoltati in aula o per rogatoria non confermarono mai tale ipotesi.

Per lunghi anni, per amor di Patria, ho sempre pensato che alla orrenda strage di S.Anna non avessero partecipato italiani camuffati da S.S. e con il volto coperto per non farsi riconoscere. Mi sembrava impossibile. Purtroppo, però, dalla lettura di alcuni libri ho tratto degli elementi che mi hanno fatto ricredere.  In “Versilia la strage degli innocenti”, di Giorgio Giannelli, si legge la testimonianza di Ennio Navarri, che i nazisti misero nel gruppo di bambini che furono rinchiusi in una stalla. Quando la porta fu riaperta, delle S.S. presero delle mucche. Quando uno di loro tentò di trascinare fuori una bestia dalla stalla il piccolo Navarri lo sentì gridare “Dai mora!”. Un’espressione in dialetto versiliese. Quando per l’ultima volta la stalla fu riaperta, i tedeschi gettarono in mezzo a quei ragazzi bombe a mano, Navarri, che stava in fondo alla stalla vicino alla greppia, riusci a spiccare dei salti sopra le bombe prima che esplodessero, riuscendo così a salvarsi.

Un,’altra preziosa testimonianza è contenuta nel libro “Un prete indifeso in una storia a metà – Don Giuseppe Vangelisti e il suo memoriale”, scritto da Giuseppe Vezzoni. L’autore, citando don Giuseppe, racconta che un certo Giuseppe Pardini udì un soldato che, mentre stava uccidendo una vacca, disse: “Non sei ancora morta mostra!”. Un’espressione, anche questa, tipicamente dialettale. Sempre nel suo memoriale don Vangelisti ha annotato quanto gli disse il giorno dopo la strage il padre di don Innocenzo Lazzerri: ”Sa chi c’era anche? Il tal dei tali, l’ ha riconosciuto mio fratello a Valdicastello mentre si toglieva la maschera credendosi ormai lontano dai conoscenti”. La santannina Cesira Pardini nel corso dell processo alle S.S. confermò, in aula, che a sparare a sua madre era stato sicuramente un italiano.

Da segnalare anche le testimonianze rese in sede dibattimentale da Lidia Pardini, Renato Bonuccelli, Angelo Berretti. Marietta Mancini, Arnaldo Bertolucci ed Ettore Salvatori. Quest’ultimo riconobbe che tra i tre italiani che con i tedeschi uccisero la gente in località Colle, c’era un un tale Giuseppe Ricci, che in un confronto presso la pretura di Pietrasanta avvenuto nel dopoguerra ammise di aver partecipato alla strage perché fu minacciato di morte dai tedeschi. Due pietrasantini, Francesco Gatti ed Egisto Cipriani, furono riconosciuti dal fratello dell’ex partigiano Nicola Badalacchi tra le S.S. che scortarono a Lucca la colonna dei civili rastrellati a Valdicastello il 12.8.1944.

Lo storico Paolo Pezzino, docente dell’Università di Pisa (nominato dal pm consulente tecnico del processo celebrato contro le S.S.) nel libro “Sant’Anna di Stazzema, storia di una strage” riporta numerose testimonianze dalle quali risulta evidente che fra i tedeschi che commisero la strage c’erano anche diversi italiani: li sentirono parlare nel dialetto versiliese. Italiani che massacrarono altri italiani. Una pagina nera della storia del nostro Paese.

Renato Sacchelli
(dal libro “Quando cadevano le castagne“)

 

Foto in alto: Giugno 1944, un gruppo di bambini di Sant’Anna di Stazzema festeggia con un girotondo la fine della scuola. Il 12 agosto morirono tutti

Monumento ossario di Sant’Anna di Stazzema (Wikipedia)

 

Lapide coi nomi delle vittime della strage di Sant’Anna (Wikipedia)

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